Le trasposizioni dei videogiochi sono spesso accomunate da un problema endemico: anche quando si mantengono fedeli al materiale di partenza, devono comunque rinunciare – per ovvie ragioni – sia all’interattività sia all’estensione narrativa garantita da svariate ore di gioco. Five Nights at Freddy’s costituisce però un’eccezione, e il suo adattamento risulta piuttosto interessante nel rapporto fra cinema e videogame. L’avventura grafica di Scott Cawthon, in effetti, ha ben poco di cinematografico, soprattutto se paragonata a saghe come Resident Evil o Silent Hill. L’aspetto del personaggio principale non è mai visibile (conosciamo soltanto il suo nome), mentre la trama è ridotta all’osso, priva di un vero e proprio intreccio. Tradurla sul grande schermo, insomma, significa apportare un valore aggiunto: non solo in termini di struttura, ma anche di personaggi e coinvolgimento emotivo.
Il film di Emma Tammi lavora proprio su questo aspetto, con esiti abbastanza sorprendenti rispetto alla media degli horror più commerciali. La sceneggiatura (scritta da Cawthon, Tammi e Seth Cuddeback) dà infatti spessore al protagonista con l’espediente più vecchio del mondo: attribuendogli un passato. Mike Schmidt (Josh Hutcherson) è una giovane guardia di sicurezza affetta da problemi di sonno, che si barcamena tra diversi lavori per badare alla sorellina Abby (Piper Rubio) dopo la morte dei genitori. Quando rischia di perderne la custodia, il ragazzo accetta di fare da guardia notturna in un vecchio locale caduto in rovina, il Freddy Fazbear’s Pizza, molto popolare tra i bambini negli anni Ottanta.
Le mascotte del ristorante sono cinque pupazzi animatronici, Freddy Fazbear, Bonnie, Chica, Foxy e Mr. Cupcake, capaci di muoversi liberamente per intrattenere i clienti. Mentre insegue un sogno ricorrente legato a un trauma della sua infanzia, Mike scopre che i pupazzi nascondono un macabro segreto, e possono essere molto aggressivi con gli intrusi.
La chiave di Five Nights at Freddy’s è rintracciabile nella sua classificazione: Blumhouse Productions ha infatti puntato sul rating PG-13, lo stesso di M3GAN, e non sul divieto ai minori di 17 anni non accompagnati. Diversamente delle altre produzioni targate Jason Blum, il film di Emma Tammi si rivolge a un pubblico di ragazzini e adolescenti, garantendo loro “piccoli brividi” non troppo cruenti (il sangue è ridotto al minimo) e una storia tetra ma non disperata. Certo, i puristi del gioco potrebbero rimanere delusi dall’assenza di certe dinamiche tensive: l’impiego delle telecamere di sicurezza, ad esempio, è molto limitato, pur essendo basilare nella saga videoludica. Il punto, però, è che Emma Tammi usa il videogame come base di partenza per imbastire un film pienamente compiuto, senza perdersi troppo nel fan service.
In tal senso, la caratterizzazione di Mike è esemplare. Ben lungi dall’essere la solita carne da macello, il nostro eroe ha un tragico passato che lo rende umano, come le sue ossessioni e il rapporto spigoloso con la sorellina. Ci importa davvero di lui, al contrario di ciò che accade spesso nel cinema horror “medio”, dove protagonisti bidimensionali sono offerti in sacrificio alla furia del mostro. La sua storia viene rivelata per gradi, e coagula in sé gran parte della suspense del film, più ancora dei pupazzi animatronici che infestano il locale. Difficilmente soddisferà un appassionato hardcore dell’orrore, ma spingerà intere platee di ragazzini ad avvicinarsi al genere, accompagnandoli in un mondo di spaventi catartici e paure da esorcizzare. Il vero target di Five Nights at Freddy’s sono proprio loro.
Il suo limite, se mai, è di voler mettere insieme troppi elementi diversi, che si dipanano in una trama un po’ lacunosa. Alcuni passaggi sono forzati o illogici, a dimostrazione di quanto sia faticoso trasporre un’opera poco narrativa in un film strutturato. Al contempo, è palese lo sforzo di costruire un vero e proprio intreccio, soprattutto dopo che Willy’s Wonderland aveva già portato al cinema la stessa idea di Five Nights at Freddy’s, ma con un approccio più lineare, grottesco e basato sull’azione. Qui, il cuore del racconto pulsa soprattutto nel legame fra Mike e Abby, anche grazie alla performance raffinata e sommessa di Josh Hutcherson. I suoi occhi ci ricordano che il trauma di Mike è molto più spaventoso di qualunque mostro immaginario, ma l’horror – come spesso accade – traccia il percorso per elaborarlo. L’esito finale è un antidoto al nichilismo che talvolta affligge questo genere: per non dimenticare che persino gli incubi ricorrenti hanno una via d’uscita.