Anatomia di una Caduta appartiene a quell’elenco ristretto di film, capaci di utilizzare un genere cinematografico in modo perfetto per affrontare temi tanto centrali, quanto eterni nell’esistenza, attraverso una luce attualissima sulla società dei nostri giorni. Justine Triet firma forse il film più potente dell’anno, grazie ad un cast in grado di valorizzare una sceneggiatura mirabile per crescendo e coesione. La sorpresa finale? L’interprete migliore.
Anatomia di una Caduta ci regala una Justine Triet inedita, non più dedita alla risata ma ad un dramma capace di coinvolgere profondamente lo spettatore. Protagonista è la scrittrice Sandra (Sandra Huller) che vive in una casa in una zona adiacente Grenoble, sulle Alpi Francesi, assieme al marito Samuel (Samuel Theis) e al figlio undicenne Daniel (Milo Machado Graner). Quel giorno dovrebbe concedere un’intervista ad una giornalista, ma a causa dell’alta musica messa dal marito, non è possibile proseguire. Il figlio Daniel, diventato ipovedente a causa di un incidente da pochi mesi, porta a spasso il cane. Quando torna, trova il cadavere del padre fuori dalla casa, immobile sulla neve. Dopo i primi giorni, appare chiaro che la Procura sospetta proprio Sandra della morte del marito, e la sua incriminazione diventerà un evento tanto mediatico, quanto assurdo, visto che pure Daniel sarà chiamato a testimoniare. Il processo porterà alla luce retroscena, segreti e contrasti che metteranno a dura prova il rapporto tra madre e figlio. Anatomia di una Caduta, omaggio al thriller classico che qui vive di una rilettura assolutamente moderna nei personaggi e nelle interazioni, si è aggiudicato la Palma a Cannes. Non è un caso perché la maestria con cui Justine Triet ci guida in un crescendo di intimità violata e di segreti torbidi, diventa anche un trattato sull’incertezza, in primi sul nostro rapporto con quei personaggi e anche con noi stessi. Perché ciò che si gridano Sandra e Samuel, ciò che si rinfacciano e il dubbio che ci assale seguendo un processo che è anche il processo ad una vita, ai sentimenti, ai pensieri, persino alle opere, è senza ombra di dubbio foriero di un guardarsi allo specchio. Tra inconfessabile e confessabile, Triet cuce quella che è anche un’analisi sull’incomunicabilità, sulla distruzione del focolare domestico e su quanto sentimenti e rapporti personali vadano a cambiare, spesso in modo imprevedibile. Ma poi, è soprattutto la caratura delle interpretazioni a stregare senza scampo.
Anatomia di una Caduta è armato della fotografia fredda, anzi gelida, di Simon Beaufils, che aumenta assieme alla regia distaccata nello spettatore sia l’incertezza, sia la sensazione di essere anch’egli giudice di Sandra, del suo passato e della sua vita. Il processo è quasi kafkiano, disturbante per l’aggressività, per la scarsezza di prove che conducono alla corroborazione di teorie che si basano su una soggettività naturale ma anche fastidiosa. Ma ad ogni modo è palese che ad un certo punto non sappiamo a chi credere e perché, e tale sensazione viene aumentata dal prendersi la scena graduale da parte del giovanissimo Daniel. Affetto da problemi di vista causati dalla negligenza del padre, così sicuro all’inizio, lo vediamo infine diventare a sua volta quasi detective, per capire se la madre abbia commesso un crimine oppure se sia stato il padre a togliersi la vita. Se Sandra Huller mostra tutta la sua esperienza e il suo mestiere, donandoci una madre e una moglie umanissima e per questo imperfetta, simbolo di un’impotenza generazionale, la palma del migliore va senza dubbio a Milo Machado Graner. Da tantissimi anni non si vedeva un interprete così giovane capace di essere così naturale, così tellurico e potente, così credibile. Si prende letteralmente in mano il film e se lo mette nel taschino, ricordandoci quanto sottovalutiamo i più giovani, la loro memoria e capacità di deduzione. Film cinico, pervaso da un’atmosfera accusatoria che è verso tutti e nessuno, Anatomia di una Caduta strizza l’occhio sicuramente ad Hitchcock, Preminger e Pakula, ma senza esagerare, senza perdere genuinità, nel mostrarci lo sfacelo della generazione millennial, l’incapacità di realizzare quel sogno di felicità antiborghese a lungo inseguito, agognato e mai raggiunto. Difficile dopo tutto questo limitarlo nella dimensione del puro legal drama, perché Justine Triet ci dona il film definitivo sul fallimento della nostra società, del maschio in particolare, incapace di essere ciò che ha sempre pensato di dover essere.