Cinema roberto recchioni Recensioni
Ho una certa idiosincrasia per chi, nel parlare di un’opera, parla di sé, magari raccontando qualche aneddoto personale, giusto per generare empatia e riconoscimento in chi legge. Questa volta però, sono costretto a fare un’eccezione. Era il 1993, io avevo diciannove anni e, per quanto appassionato di cinema, anche di cinema autoriale se si trattava di “classici”, in quel periodo non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di andare vedere un film franco-svizzero-polacco, con protagonista una donna che, dopo aver perso la famiglia in un incidente d’auto e aver inizialmente tentato un vero e proprio suicidio, decide comunque di “uccidere” la memoria di quella che era stata, per venire a patti con il suo dolore.
Capitemi: avevo appena scoperto John Woo e gli eroici spargimenti di sangue di Hong Kong. Eppure, in sala, ci andai lo stesso. Ovviamente, di mezzo, c’era un interesse romantico. Solo un interesse romantico ti può portare, a diciannove anni, a interessarti genuinamente a qualcosa di cui, in realtà, non ti frega nulla. Per fare breve una storia breve, l’interesse romantico non divenne mai nulla, in compenso vidi un film che poi mi rimase dentro per tutta la vita (a conti fatti, nello scambio credo di averci guadagnato, data la caducità degli amori giovanili).
Così, oggi, grazie al ritorno in sala di una versione tirata a lucido, posso parlarvi di Tre colori – Film blu, di Krzysztof Kieślowski (scritto da Kieślowski e da Krzysztof Piesiewicz, il suo avvocato e sceneggiatore di fiducia), primo film della “trilogia dei colori” che proseguirà con Film bianco e Film rosso. Sì, i colori della bandiera della Francia. Ora, prima di andare avanti, rispondiamo a una domanda semplice: perché un regista polacco dedica tre pellicole, le ultime di una filmografia molto meditata, ai colori della bandiera francese?
Ci sono due risposte a questa domanda, una “ufficiale” e una vera. Quella ufficiale racconta che Kieślowski era un regista polacco, il che significa essere cresciuto sotto un certo tipo di stato comunista e, con quello stato comunista, aver avuto non pochi problemi. Dedicare tre film agli alti ideali rappresentati dalla bandiera francese (libertà, uguaglianza, fraternità) era un modo per celebrare questi valori e la nazione che ne aveva fatto, appunto, una bandiera. La storia vera (raccontata dallo stesso Kieślowski, non senza un certo divertimento) è che, per realizzare i tre film, doveva convincere la produzione francese, e non c’era maniera migliore al mondo per convincere un francese che adularlo.
Quindi, prima di parlare di Film blu, sgomberiamo un momento il campo dal discorso del tema della “libertà”, che è sicuramente presente nella pellicola (a volercelo proprio cercare), ma che non ne è di sicuro la trave portante. Anche perché, come in tutta la filmografia del regista, le tematiche sono molteplici e dibattono tra loro, raramente trovando un accordo. Kieślowski rifiuta di dare risposte, nega le realtà assolute, non racconta mai ma mostra, e lascia che sia lo spettatore, in base al suo sentire, a dare un senso personale a quello che ha visto. Sì, certo, in Film blu, la protagonista (interpretata da una straordinaria Juliette Binoche) cerca la libertà, ma la liberà da sé stessa, dai suoi ricordi, da quella vita passata che la tormenta. Non è l’alto ideale della “Libertà” (quella con la elle maiuscola di cui si riempiono la bocca i demagoghi) a essere inseguito, ma una libertà minuscola, privata e, forse, nemmeno così davvero liberatoria. Perché nel cercare di uccidere quella che era, la protagonista inevitabilmente scopre chi è e quali sono le sue caratteristiche umane inalienabili, quindi, invece di uccidere il sé, non fa altro che riaffermarlo, rendendolo ancora più saldo e ineluttabile.
Ora, con calma, questo è quello che sembra a me. Ma posso affermare con decisione che il film dica davvero questa cosa? Non tanto. Perché nella pellicola ci sono mille porte interpretative aperte e Kieślowski non ci dice mai “questa è quella giusta, quella che davvero rappresenta il mio pensiero” ma lascia scegliere allo spettatore. Nel libro Double Lives, second Chances: the Cinema of Krzysztof Kieślowski di Annette Insdorf, si osserva come la maggior parte dei personaggi dei suoi film siano individui o alle prese con delle scelte future, spaventati dalle possibili conseguenze, o che riflettono su scelte passate e come queste abbiano cambiato il corso della loro vita. La scelta, il libero arbitrio, il diritto di ognuno di vedere le cose alla propria maniera, è un metatema nel cinema del registra che trascende la semplice narrazione delle sue storie per impattare direttamente sul suo pubblico.
Quindi, Kieślowski non propone un suo punto di vista? Diamine, certo che lo propone, ma quel punto di vista è raccontato dalla maniera in cui lui guarda le cose, come le inquadra, come ci si sofferma, come contrappone delle immagini a delle altre. Stanley Kubrick, uno che non parlava spesso del lavoro dei colleghi, su Kieślowski disse:
Kieślowski e Piesiewicz, hanno la rarissima capacità di drammatizzare le loro idee, piuttosto che raccontarle solamente. Esemplificando i concetti attraverso l’azione drammatica della storia, essi acquisiscono il potere aggiuntivo di permettere al pubblico di scoprire quello che sta realmente accadendo piuttosto che semplicemente raccontarglielo. Lo fanno con tale abbagliante abilità, che non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli, prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore.
Che semplificando le parole del maestro, è la regola più sacra (e troppo spesso violata o dimenticata) di chiunque voglia condividere una storia: “Show, don’t tell”, mostra, non raccontare.
Quindi, in conclusione: ha senso vedere oggi Film blu? Assolutamente sì, perché è un film che persegue un significato universale e atemporale, e lo fa con un linguaggio che parla direttamente alla nostra umanità, scardinando ogni sovrastruttura sociale, accademica, politica, culturale o economica. E, sorprendentemente data la natura pessimista del regista, è anche un film pieno di speranza e di luce, che ci dice che non necessariamente la solitudine è un male, ma che nessun essere umano è un’isola, che siamo tutti in qualche maniera collegati, che la solidarietà e la condivisione sono spesso una via, se non di salvezza, almeno di senso, e che un nuovo inizio può trovarsi nei luoghi più inaspettati, bisogna solo saperlo vedere (e accogliere).
In poche parole, Film blu è un film che fa bene (ma prima vi farà parecchio male) e che merita di essere visto (o rivisto) in sala.