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The Killer, la recensione del film di David Fincher da Venezia 80

Pubblicato il 03 settembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

“To die by your side is such a heavenly way to die” cantano gli Smith sui titoli di coda di The Killer, film dove la morte viaggia sempre al fianco del protagonista, il sicario dai molti nomi con il volto di Michael Fassbender. Non è però solo la storia di un assassino professionista: David Fincher e lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker (lo stesso di Seven) sfruttano il fumetto di Alexis “Matz” Nolent e Luc Jacamon per offrirci la loro personale versione di un revenge movie, allineata allo sguardo raggelante del regista americano.

La trama è estremamente lineare, come da tradizione di questo sottogenere. Appostato in un ufficio vuoto di Parigi, un killer aspetta il momento opportuno per uccidere il suo prossimo obiettivo, che alloggia nell’hotel di fronte. L’attesa è lunga, ma il protagonista è in compagnia dei suoi pensieri: lo sentiamo ragionare sulla preparazione dell’omicidio e sul suo regime di lavoro, un vero e proprio mantra che rifugge tanto dalle distrazioni quanto dall’empatia. Esercizi fisici e brevi pasti proteici scandiscono la sua permanenza. Quando però giunge il momento di sparare, accade l’impensabile: l’assassino fallisce il bersaglio, ed è costretto a lasciare la città in fretta e furia. Le conseguenze del suo errore cominciano a perseguitarlo, mentre il cacciatore diventa preda, e poi ancora cacciatore.

Come si è accennato prima, David Fincher ha un modo tutto suo di rileggere le storie di vendetta. Laddove altri ne sfruttano le premesse per far esplodere l’azione (pensiamo a John Wick), Fincher ci vede un strumento per lavorare sulla tensione. The Killer è un film più di ragionamento che di confronti a viso aperto, anche perché – con l’esclusione di un unico caso, peraltro molto ben gestito sul piano coreografico – le esecuzioni dell’assassino sono fulminee, metodiche e glaciali. Il punto è proprio questo: la sceneggiatura di Walker ci proietta nella mente del killer, facendo coincidere il nostro punto di vista con il suo. È una situazione scomoda, poiché ci cala nella prospettiva di un uomo spietato, gli occhi sempre fissi sull’obiettivo, allergico a qualunque forma di compartecipazione emotiva («L’empatia rende deboli» fa parte del suo mantra).

Se il revenge movie “classico” ci coinvolge nella giusta battaglia dell’eroe, solitamente vittima di un torto, qui assistiamo invece alla lotta di un uomo che ha provocato il suo stesso destino. Non a caso, i suoi omicidi non sono sempre giustificabili dalla simpatia del pubblico, tutt’altro. Il killer compie scelte che lo spettatore non farebbe, ed è lì che Fincher ci mette in difficoltà: sfida i nostri princìpi morali, mettendo in crisi l’identificazione con il protagonista (uno degli storici capisaldi di Hollywood, nientemeno). La coincidenza con il suo punto di vista permette inoltre a Fincher e Walker di evitare qualunque tipo di didascalismo. Non ci sono spiegazioni su chi siano i personaggi o sugli scopi del killer, la sceneggiatura ci chiede di avere fiducia nel racconto, lasciando che si dipani attraverso il linguaggio delle immagini. L’esito è quasi ipnotico: con forza centripeta, veniamo trascinati per gradi verso il nucleo della vicenda, nonostante le informazioni in nostro possesso siano scarse.

L’eroe negativo diviene così una seducente guida nel lato più selvaggio dell’esistenza, e la sua voce è una provocazione continua rivolta al pubblico. D’altra parte, il cinema di David Fincher lavora da anni per toglierci le nostre sicurezze, mettendoci in guardia dal mondo là fuori. L’anonimo sicario non ha niente in comune con gli psicopatici serial killer di Seven, Zodiac, Millennium – Uomini che odiano le donne e Mindhunter, però è singolare che Fincher scelga per la prima volta di esplorare lo sguardo dell’assassino. In tal senso, il suo cinema algido e calcolatissimo si addice benissimo al rigore di un sicario, e non poteva che sfociare in un thriller carico di energia trattenuta. È proprio questo passo controllato a influenzare l’andamento di The Killer, compreso un finale volutamente sottotono e un po’ troppo sbrigativo, ma fondamentale per l’autocoscienza del protagonista. O per quella di tutti noi, a ben vedere. Contrariamente ad altri film di Venezia 80, la consapevolezza di appartenere alla massa non privilegiata del mondo non desta stupore o rabbia, ma solo un placido disincanto: non è forse così che vive la maggior parte di noi?