La percezione dei robot varia moltissimo tra Oriente e Occidente, soprattutto se pensiamo al Giappone: la religione shintoista attribuisce infatti un kami (traducibile in questo caso come “spirito”) sia alle creature animate sia agli oggetti inanimati, quindi non solo a tutto ciò che è vivo, ma persino alla materia inerte, alle “cose”. Tale concezione animista si applica giocoforza anche agli automi, e non è difficile intuire perché l’immaginario giapponese – come sottolinea Andrea Daniele Signorelli in una puntata di Crash – sia popolato da creature artificiali benevole ed eroiche, o perché i robot da compagnia non siano guardati con la stessa diffidenza che si respira invece nelle culture giudaico-cristiane (come l’Europa e gli Stati Uniti, ad esempio). Con queste premesse, il conflitto geopolitico al centro di The Creator suona ancora più verosimile, e dimostra l’intelligenza di Gareth Edwards nel concepire un futuro che rispecchia gli scontri ideologici del presente.
Siamo nel 2065, e l’umanità ha ormai raggiunto la singolarità tecnologica: lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha generato robot senzienti che affiancano le persone nella vita di tutti i giorni, alcuni dei quali – i sint – hanno anche fattezze umane. L’esplosione di un ordigno atomico a Los Angeles, però, stravolge gli equilibri interni dell’Occidente. Gli Stati Uniti incolpano proprio le intelligenze artificiali, e considerano la bomba come un atto di guerra contro l’umanità: di conseguenza, i robot sono banditi dal mondo occidentale, mentre nel continente della Nuova Asia continuano a vivere al fianco degli umani, formando una società ibrida ed equilibrata. Per tutta risposta, gli USA costruiscono il Nomad, una gigantesca stazione aerea capace di lanciare un attacco missilistico in ogni angolo del globo.
Joshua (John David Washington) è un agente delle forze speciali incaricato di rintracciare il Creatore, misterioso architetto delle IA più avanzate, per ucciderlo e porre fine alla guerra. A tal fine, si unisce sotto copertura a una milizia del Sud-Est Asiatico, dove conosce una donna di nome Maya (Gemma Chan) e se ne innamora. Quando la sua copertura salta, Joshua crede di aver perso Maya per sempre, ma cinque anni dopo le sue speranze rinascono: le fonti dell’intelligence sostengono che Maya sia ancora viva, e che il Creatore abbia costruito un’arma capace di distruggere il Nomad. Tornato in Asia con una squadra su richiesta del governo, Joshua scopre però che l’arma in questione è Alphie (Madeleine Yuna Voyles), un’IA con sembianze di bambina, e intraprende un viaggio con lei alla ricerca di Maya.
Gareth Edwards ha una visione molto precisa della fantascienza, anche se le parentesi di Godzilla e Rogue One – due franchise, quindi meno personali – lo hanno costretto ad accantonarla per qualche anno. In tal senso, The Creator è ben più vicino a Monsters, il suo primo film, che già fondeva il meraviglioso nel quotidiano: Edwards ama infatti raffigurare quei momenti della Storia in cui i grandi cambiamenti si sono già compiuti, e non destano più alcuna sorpresa, ma fanno parte della vita comune. Ciò risulta evidente nel finto documentario iniziale, e soprattutto nella società della Nuova Asia, sorta di utopia umano-robotica che si contrappone allo stato di crisi permanente in cui versano gli USA. Se Monsters guardava alle tensioni sul confine tra Stati Uniti e Messico, The Creator sposta l’attenzione sull’ascesa economica e politica dell’Asia, che mette in discussione il vecchio monopolio americano (e occidentale) sul pianeta.
In effetti, la sceneggiatura di Edwards e Chris Weitz intercetta molteplici conflitti dei nostri tempi (l’imperialismo statunitense, i timori per l’IA, il contrasto Oriente-Occidente, il post-colonialismo…) e li rielabora attraverso la fantascienza, coagulando nell’algida efficacia del Nomad tutta la problematicità dell’interventismo americano. Dopo il prologo, non è difficile capire da che parte si schieri il regista. La suddivisione del film in quattro “atti” è un avvicinamento progressivo alla verità, che svela per gradi non solo il reale stato delle cose, ma anche il rapporto tra Joshua e Alfie, l’affetto da cui sono legati. È raro vedere un blockbuster di Hollywood così palesemente anti-americano: con le sue visioni immaginifiche, The Creator ci parla dell’America degli ultimi decenni, della sua continua ricerca di un nemico comune per unire i consensi, e del suo disperato tentativo di riaffermare un traballante dominio globale. Dall’altra parte c’è invece una società che guarda al futuro, e che prospera nell’integrazione del “diverso”. È un peccato però che il copione non dedichi maggior spazio a inquadrare questo contesto, per spiegarne il funzionamento e la struttura sociale.
Ciononostante, Edwards continua a regalarci delle immagini grandiose, piacevolmente divise tra familiarità (è pur sempre il nostro mondo) e straniamento (la simbiosi tra uomini e macchine influenza anche il paesaggio). Certo, molte idee sono derivative. L’estetica, come pure l’ibridazione tra tecnologia e ambiente, deve qualcosa alle illustrazioni di Simon Stålenhag, mentre il dialogo fra fantascienza e lotte sociali rimanda al primo Neill Blomkamp. C’è persino un accenno al transumanesimo di Richard K. Morgan, poiché anche qui, come in Altered Carbon, è possibile trasferire la coscienza e i ricordi di una persona in un corpo artificiale. Edwards però è bravo a sintetizzare queste influenze esterne in un racconto lucido, che non scivola nel ridicolo predeterminismo di Elon Musk o di altri falsi profeti. Alla base di The Creator non c’è il timore apocalittico dell’intelligenza artificiale, bensì un auspicio di sviluppo e cooperazione: in altre parole, un desiderio di pace. Nell’immaginare un futuro di prodigi e singolarità tecnologica, il regista predilige l’utopia alla distopia, e si trova molto più a suo agio nella contaminazione fra organico e inorganico della Nuova Asia.
Anche per questo motivo, giunti al termine della storia è facile sorvolare sui limiti della scrittura, che in alcuni passaggi narrativi risulta un po’ farraginosa o semplicistica. La mano salda di Edwards (anche nel girare l’azione) e l’ottimo comparto tecnico fanno il resto, nonostante il budget sia inferiore alla media dei blockbuster. L’esito finale magari non è impeccabile sotto ogni aspetto, ma sfiora le corde giuste, ha una visione lodevole e dimostra di saper impiegare bene le risorse a sua disposizione. Tutto ciò, peraltro, con una sceneggiatura originale: caso sempre più raro in queste produzioni, e non è un pregio da poco.