Quello di fomentare le attese intorno ai film horror è un vecchio trucco del marketing, e può spaziare dalle cronache di reazioni esagerate in sala (pensiamo ai supposti svenimenti durante L’esorcista) ai virgolettati di personaggi famosi che elogiano il film stesso (con Stephen King in prima linea). Il patto di fiducia tra distributori e pubblico si è però incrinato nel corso del tempo, rompendosi nei primi anni Duemila con numerosi horror che, a suon di citazioni da siti specializzati, sono stati spacciati come dei capolavori, salvo poi rivelarsi per quello che erano: opere trascurabili, se non mediocri. Oggi però i tempi sono cambiati, l’horror gode di maggior salute rispetto a vent’anni fa, e il marchio di A24 è diventato garanzia di spaventi raffinati, ricchi di stratificazioni e sottotesti. Talk to Me, spalleggiato dall’entusiasmo della critica americana, può vantare il prestigioso contrassegno dello studio newyorkese, che lo distribuisce negli Stati Uniti (la produzione è australiana) e gli ha attribuito la fama di nuovo fenomeno horror. Una strategia promozionale molto astuta, ma a ben vedere un po’ fuorviante.
Sia chiaro, Talk to Me è un validissimo esponente della sua categoria, soprattutto se consideriamo che i registi Danny e Michael Philippou – autori del canale YouTube RackaRacka – sono due esordienti. Il marketing, però, finisce per alimentare delle aspettative che il film non può soddisfare, e che rimangono estranee alla sua natura. Certo, la colpa non è dei cineasti, che anzi dimostrano di saper fare il loro mestiere: il cold open iniziale, per quanto scontato nell’horror, punta tutto su un’essenzialità priva di spiegazioni, e impiega con arguzia il piano sequenza per racchiudere l’intero prologo (oltre ai campi totali nei momenti topici). Fin dalle prime battute, insomma, i Philippou danno prova di saper costruire la tensione, lasciando intendere che qualcosa di terribile possa sempre accadere.
È solo quando incontriamo la diciassettenne Mia (Sophie Wilde) che il contesto inizia a prendere forma. Mia ha perso la madre per un’overdose di farmaci, e continua a chiedersi se sia stata una morte accidentale o volontaria. Con il padre Max (Marcus Johnson) parla a malapena, ma in compenso trascorre gran parte del tempo con la sua migliore amica Jade (Alexandra Jensen) e con il fratellino di quest’ultima, Riley (Joe Bird). Insieme a loro, partecipa a un raduno tra amici in cui l’attrazione principale è una mano imbalsamata che permette di evocare i defunti: pronunciando due frasi ricorrenti («Parla con me» e «Ti lascio entrare»), lo spettro prende possesso del corpo di chi lo ha chiamato, ma la connessione dev’essere interrotta prima di 90 secondi per evitare che il fantasma resti legato al suo ospite. Mia e gli altri si divertono un mondo, ma la situazione diventa critica quando gli spiriti prendono di mira Riley.
Talk to Me si colloca nell’intersezione fra il cosiddetto elevated horror (definizione comoda ma molto opinabile) e le forme più adolescenziali del genere, con un’inclinazione verso queste ultime. Da un lato, è indubbio che i Philippou optino per una regia precisa ed elegante: pochissimi jump scare, effetti speciali ridotti al minimo, e gran lavoro sui movimenti di macchina che ruotano attorno ai personaggi o ne seguono le reazioni con scatti improvvisi, soprattutto durante i rituali. Lo schema di base, però, deriva palesemente dal teen horror, come anche l’eccessiva linearità dell’intreccio. Per buona pace della campagna promozionale, non siamo di fronte a un horror sorprendente o innovativo, capace di segnare una nuova tappa nella storia recente del genere; se mai, si tratta di un solido esordio che pone delle ottime basi per il futuro, in particolare se gli autori sapranno maturare nella scrittura.
Il tentativo di affrontare problematiche serie attraverso l’orrore, tipico del suddetto elevated horror, è solo accennato nel lutto di Mia e nella vicenda della madre, il cui disagio psicologico non viene contestualizzato né tantomeno approfondito. È un dettaglio importante: il trauma della protagonista è proprio ciò che innesca indirettamente il conflitto, ma trattarlo in questo modo significa ridurlo a mero espediente narrativo, a semplice motore per la storia. Forse non è un caso che il film cominci a impantanarsi proprio quando prende quella strada, smarrendo tensione nella seconda parte. Al contrario, Talk to Me dà il meglio di sé quando incrementa e fa esplodere la suspense (esemplare la possessione di Riley), o quando punta sul lato intimista: è pur sempre un horror che pone al centro i rapporti fra i personaggi, più che gli effettacci o gli spaventi facili.
In ogni caso, pur non riuscendo a governare l’intreccio per tutta la sua durata, i Philippou lavorano con intelligenza sulla viralità dei fenomeni adolescenziali, di cui la mano imbalsamata è un’espressione immaginaria ma emblematica. Evocare i morti si trasfigura in una droga, un modo per sballarsi con gli amici nella convivialità più sfrenata, e sono proprio le condivisioni sui social a rendere virale questo passatempo. Per una coppia divenuta celebre su YouTube, non potrebbe esserci nulla di più appropriato.