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Priscilla, la recensione del film di Sofia Coppola da Venezia 80

Pubblicato il 04 settembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena non aveva ancora compiuto 14 anni quando fu annunciato il suo fidanzamento con Luigi XVI di Francia. Priscilla Ann Wagner Beaulieu ne aveva 14 quando iniziò la sua relazione con Elvis Presley, di dieci anni più grande. Graceland, la dimora che Elvis comprò nel 1957, divenne ben presto la sua Versailles: una gabbia dorata per una regina-bambina. I paralleli sono abbastanza espliciti, ed è inevitabile pensare a Marie Antoinette quando Sofia Coppola inquadra i dettagli preziosi – per quanto pacchiani – della residenza di Elvis, o gli abiti variopinti e i trucchi di Priscilla.

Anche qui, la regista americana ha voluto adottare un punto di vista femminile a lungo ignorato, perché considerato secondario rispetto ai grandi eventi storici (per Maria Antonietta) o all’idolo delle masse (nel caso di Priscilla). Eppure, stiamo parlando di una ragazzina che lascia la famiglia per trasferirsi alla corte del re, talmente giovane che la custodia legale deve essere assunta da Vernon Presley, padre di Elvis: ne deriva una prospettiva inedita e privata che, pur all’interno di un contesto parossistico, riecheggia situazioni molto più comuni di quanto si pensi nelle dinamiche amorose. L’autobiografia Elvis and Me di Priscilla Presley e Sandra Harmon permette a Sofia Coppola di rimettere piede nel mondo dell’adolescenza, già cruciale in altri suoi film, raccontando però una formazione sentimentale tortuosa e insolita. Priscilla (Cailee Spaeny) è felice di vivere nella magione di Elvis (Jacob Elordi), ma deve ben presto confrontarsi con una personalità narcisista e ingombrante: Elvis non le permette di lavorare, pretende da lei che sia sempre disponibile, e le impone un certo modo di vestirsi, pettinarsi e truccarsi. In altre parole, la tratta come una bambolina.

Coppola lavora con abilità sugli attori, già a partire dal casting: il corpo minuto di Cailee Spaeny è sovrastato dalla fisicità di Jacob Elordi (molto più alto di quanto non fosse il vero Elvis), stabilendo un contrasto che rende Priscilla ancora più “bambina”. Non a caso, le parti migliori del film sono quelle che raccontano lo spaesamento della ragazzina, lo sbilanciamento tra lei e il contesto, i suoi vani tentativi di avere rapporti umani che non siano con Elvis; esemplare, in tal senso, quando Vernon la caccia dalla stanza dove lavorano alcune collaboratrici della star, con cui Priscilla stava chiacchierando in simpatia.

Il problema, se mai, emerge non appena Coppola deve tracciare la crescita della protagonista nell’ambiente aureo di Graceland. Priscilla non ne esce come una donna ricca di sfaccettature, poiché la maggior parte delle sue scene è in reazione allo stesso Elvis, alle sue nevrosi e ossessioni. Il quadro di un rapporto fondamentalmente tossico è ben chiaro, ma i ragionamenti di Priscilla e le sue motivazioni non lo sono altrettanto: vista così, la ragazza sembra esistere solo in funzione del più celebre marito, proprio com’era ritratta sulla stampa dell’epoca (il parallelo con Marie Antoinette, infatti, resta in superficie: la regina di Francia era molto più complessa). Le conseguenze di questa trascuratezza si avvertono tutte nell’epilogo, frettoloso e approssimativo non solo sul piano psicologico, ma anche del ritmo narrativo.

Peccato, perché la regista sa ancora cesellare immagini di notevole impatto, soprattutto con la fotografia di Philippe Le Sourd, che valorizza le fonti di luce naturale negli ambienti chiusi (le finestre sono dei surreali riquadri luminosi, quasi ultraterreni) e avvolge i personaggi in una penombra costantemente malinconica. L’impressione, però, è che Coppola nelle riflessioni sul femminile non riesca più a essere rilevante quanto lo era quindici anni fa, e che altre cineaste sappiano tenere il polso dei tempi molto più di lei.