Origin era molto atteso, per il tema trattato, per il portare sul grande schermo la genesi di “Caste: the Origins of Our Discontents” della scrittrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson, uno dei libri più importanti dell’ultimo decennio. Razzismo, classismo, società moderna e antica, l’odio come eredità e sistema, sono al centro di questo film che è a metà tra documentario e biopic, intimo e che tende all’universale. Non tutto è riuscito, ma rimane un film comunque apprezzabile per l’audacia dell’operazione complessiva.
Isabel Wilkerson (Aunjanue Ellis-Taylor) sta attraversando un momento a dir poco drammatico. La madre (Emily Yancy) è morta da poco, preceduta tragicamente dal marito di Isabel, Brett (Jon Bernthal) morto per infarto. Depressa, piena di dolore e senza un vero scopo nella vita, decide di concentrarsi sul suo lavoro di scrittrice. Il tema del razzismo è tornato purtroppo d’attualità in America, e lei non è convinta che la risposta giusta per comprendere il fenomeno a livello globale sia quella fino ad allora ritenuta la più corretta. Viaggiando per il mondo, mentre cerca di rimettere assieme i pezzi di una vita attraversata dal dolore, Isabel si confronterà con l’Olocausto, la persecuzione dei dalit in India, la memoria della tratta degli schiavi, i tempi della segregazione, tracciando infine un percorso comune che stravolgerà la concezione della storia della società e del razzismo come fenomeno culturale. Origin è firmato da Ava DuVernay, giornalista, regista e produttrice della nuova ondata afro, ed è una grande scommessa in cui nessuno credeva, vista la difficoltà teorica nel far comprendere l’analisi e le teorie della Wiklerson. Il film è a metà tra biopic e semi-documentario, ha un piglio di impegno civile inedito per costruzione e complessità, non manca la volontà di smuovere emozioni e di far entrare in empatia con questa donna straordinaria, distrutta dai lutti e dalla solitudine ma mossa da una profonda empatia verso gli altri. Origin fa tutto questo e intanto ci parla di ribelli del passato, di chi voleva amare una donna ebrea, giocare con i bianchi in Alabama, non dover essere più un essere inferiore nelle fogne di Delhi. Diventa così un documentario o quasi, sul concetto di razzismo come prodotto del classismo, tratto distintivo di ogni civiltà che cerca un nemico o meglio lo cerca chi comanda, chi crede nelle barriere, mischiando micro e macro-narrazione.
Origin è un film politico ed impegnato, ha molta meno retorica e ricatti dei sentimenti di altri film recenti, firmati dalla nuova generazione di autori afroamericani. Tuttavia, permane un grosso problema: non sembra veramente un film. Di base è una lunga analisi della visione della Storia come americanocentrica, come essa è stata concepita e analizzata negli ultimi anni da un certo ambiente accademico, con uno specifico punto di vista. Per un europeo, trovarsi d’accordo con la visione della Wilkerson non è tanto difficile, quanto complesso, perché se da un lato immette il concetto di classismo come vera matrice della diseguaglianza, di cui il razzismo è una conseguenza, dall’altro su altre questioni il film appare abbastanza superficiale. Fatto ancora più importante, è un film americanocentrico, in cui tutto ruota attorno alla tratta degli schiavi, alla segregazione, come se lo schiavismo, il classismo, non fossero antichi quanto il mondo.
La discriminazione poi, non tocca mai la componente etnica o religiosa, qualcosa che negli Stati Uniti il fronte liberal non comprende perché non appartiene alla società a stelle e strisce. Detto questo, è un film che offre ottimi spunti di riflessione, illumina elementi di novità e problematiche comuni nel nostro mondo ancora attuali. Ma l’America non è il mondo, è parte di esso, ed Origin, se da un lato è un passo decisivo in questa direzione, d’altra parte ci conferma che per loro, dall’altra parte dell’Oceano, tutto deve sempre tornare dentro i confini a loro noti, la loro società, la loro storia. Ad ogni ha un messaggio anticlassista e antidiscriminatorio argomentato bene, con sentimento, peccato che quello anticapitalista ai nostri amici americani, non riesca proprio ad entrare in testa.