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Memory, la recensione del film di Michel Franco da Venezia 80

Pubblicato il 08 settembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

La memoria talvolta ci inganna: può essere selettiva, parziale, ma tendiamo comunque a basare su di essa gran parte della nostra identità, come pure le battaglie che combattiamo e i rancori che coltiviamo. Anche per questo, il peso dei ricordi – o la loro assenza – è cruciale nella trama di Memory, terzo film del messicano Michel Franco in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, due anni dopo il Gran Premio della Giuria per Nuevo Orden.

Come nei precedenti Chronic e Sundown, anche qui la malattia condiziona le vite dei personaggi, stabilendo un rapporto di interdipendenza tra chi ne è affetto e chi non lo è. Senza didascalismi, la sceneggiatura di Franco ci introduce gradualmente nella vita di Sylvia (Jessica Chastain), assistente sociale che frequenta gli Alcolisti Anonimi, ed è sobria ormai da 13 anni: all’incirca la stessa età della figlia Anna (Brooke Timber), che Sylvia cerca in ogni modo di proteggere dai pericoli esterni. I gravissimi traumi della sua infanzia la portano a evitare ogni contatto con la sfera maschile, e inoltre l’hanno allontanata dalla madre. In compenso, frequenta ancora la sorella Olivia (Merritt Wever) e la sua famiglia, con cui ha gli unici contatti extra lavorativi. Quando partecipa al ritrovo degli ex studenti del suo liceo, però, Sylvia viene seguita fino a casa da Saul (Peter Sarsgaard), che trascorre l’intera notte fuori dalla sua porta. L’uomo è affetto dalle prime fasi di demenza, e Sylvia comincia a trascorrere del tempo con lui su richiesta della famiglia.

Se il protagonista di Chronic e i suoi pazienti terminali erano legati da una dipendenza reciproca, anche Sylvia e Saul sviluppano una simbiosi forse incomprensibile all’esterno, ma fondamentale per entrambi. Di fatto, sono l’uno l’opposto dell’altra: i ricordi di Saul tendono a svanire, soprattutto la memoria a breve termine, mentre quelli di Sylvia la ancorano a un passato da cui non può liberarsi. Gli abusi subiti in gioventù influenzano ogni aspetto della sua vita, soprattutto il rapporto con gli uomini, e Jessica Chastain è bravissima a esprimerne il disagio con piccoli gesti nervosi ed espressioni sofferte. In tal senso, l’abilità di Michel Franco sta nell’evitare le soluzioni narrative più elementari: non ci sono flashback rivelatori, né dialoghi espositivi. Tocca allo spettatore ricostruire il passato di Sylvia attraverso i suoi comportamenti, prima che sia lei a parlarne apertamente (peraltro senza forzature).

Memory non cerca il pietismo, ma racconta l’onda lunga degli abusi nella vita di una donna, ricordandoci al contempo che non è mai tardi per immaginare un futuro. Dopo molti anni, Sylvia può accogliere nuovamente il tocco di un uomo perché ne avverte la vulnerabilità, e sente quanto lui abbia bisogno di lei (e viceversa, emotivamente parlando). Certo, la loro storia è possibile soltanto ai margini delle rispettive famiglie, soprattutto da quella di Saul. Si sa che gli amanti, a volte, creano un microcosmo tutto loro, e Franco lo dipinge per piccoli cenni essenziali: un divano su cui assopirsi insieme, un primo bacio in strada, un goffo cercarsi di mani ansiose in camera da letto. Non c’è mai retorica, la narrazione resta sempre asciutta e rigorosa, all’insegna di un melodramma contemporaneo che scova la verità delle reazioni e dei sentimenti.

Alla fine, conta il trovarsi. Oltre i possibili inganni della memoria, oltre l’ipocrisia di una famiglia che nega l’evidenza, ci sono due solitudini che si sono incontrate nel momento giusto, e nella più improbabile delle circostanze. Memory, pur nella sua drammaticità, è anche un film pieno di speranza.