Aveva i fucili puntati addosso Bradley Cooper per il suo Maestro, per questo film dedicato alla vita, all’opera di Leonard Bernstein. Il risultato finale è un film onirico, molto teatrale, a tratti opprimente, ma che oltre a darci la miglior performance di sempre del fu American Sniper, ci conferma che Carey Mulligan è un’attrice straordinaria. Assieme i due salvano il film dalle due sue imperfezioni con forza quasi muscolare.
Il nome di Leonard Bernstein ancora oggi risplende di una forza a dir poco smisurata. Pacificamente tra i più grandi direttori d’orchestra, compositori e pianisti di ogni tempo, cambiò completamente lo scenario musicale e si impose come figura tra le più singolari, controverse e radicalmente atipiche del suo tempo. Della sua vita, della sua opera ma soprattutto della sua tormentata relazione con Felicia Cohn Montealegre, Bradley Cooper ha preso spunto per la sua seconda dietro la macchina da presa, dopo A Star is Born, cesellando un film sincopato, a metà tra teatralità e grande narrazione classica. Il risultato finale è quello di un film imperfetto ma coerente, pieno di passione, commovente, tragico, divertente, intimo nel modo più assoluto, iperdialogato in modo quasi dittatoriale. Elegantissima la fotografia di Matthew Libatique, che alterna bianco e nero ai colori vividi che evidenziano lo straordinario make-up fatto su Bradley Cooper. L’attore americano si lancia a rotta di collo in un’interpretazione viscerale, eternamente sopra le righe, la sua più grande e difficile, più coraggiosa ed estrema. In un genere così abusato e ormai inflazionato, è bellissimo vedere come ci sia comunque modo di donare qualcosa di così onesto, di così genuino, al netto di un film dalla struttura e ritmo poco accattivanti, dalla regia forse troppo invasiva. Eppure, la sua chimica con Carey Mulligan è talmente profonda, vera, talmente ipnotica che di tutto questo non ci si accorge, oppure si decide di metterlo in soffitta, perché non si può resistere a vedere il prossimo scambio, la prossima litigata, il prossimo sguardo tra i due. In loro, Maestro trova un motore inarrestabile di bellezza sovverchiante.
Bradley Cooper rende il suo Bernstein una sorta di jazzista delle parole, le usa per stordire chiunque, anche sé stesso, per cercare di non vedere la realtà della sua omosessualità rifiutata e assieme celebrata in modo aperto e senza fronzoli. Radical chic come formula è nato con lui, Cooper non fa nulla per nasconderlo, riuscendo a farci detestare anche un po’ questo ambiente di gente brillante per diktat, costretta ad autocelebrarsi per alimentare il proprio fuoco interiore. Solo se sei eccezionale puoi farne parte e nessuno lo era più di Bernstein, che nella vita sbaglia tanto, sbaglia tutto, ma mai quando deve comporre, mai quando deve dirigere, insegnare. Lì sopra vicino a quel leggio è un Dio, è un titano, è Michelangelo che dipinge o Maradona che gioca. Carey Mulligan è perfetto contraltare, ci regala l’interpretazione di un’infelicità e un altruismo meravigliosi, ma soprattutto la trasformazione fisica straziante di un corpo che muore. Difficile trattenere le lacrime mentre Maestro ce ne mostra ogni passaggio, Bernstein che torna da lei perché non potrebbe fare altrimenti, la accudisce, la stringe assieme alla prole (tra cui Maya Hawke). Lì, in quei momenti finali, non ci sono più bugie, più mezze verità o tradimenti, c’è la purezza di un legame umano che Cooper ci mostra con sguardo coraggioso, più europeo (anzi francese) che americano. Vedremo se l’Academy gradirà, ma se si escluse Shine (altra epoca, altro cinema, altra Academy) una tale volontà di verità non è mai stata recentemente preferita all’agiografia che liscia tutti per il verso giusto. Buona pura la seconda messere Cooper, continui così grazie.