La Bête per ora è in testa alla classifica di film più personali e di certo a maggior tasso di autorialità tra quelli in concorso a questa Venezia 80. Bertrando Bonello cala un asso che ha il volto di Lea Seydoux, le crea attorno un percorso che ignora ogni normale struttura narrativa per concentrarsi sul concetto di racconto come protagonista assoluto, corpo da sezionare usando il tema del sentimento, della solitudine, del cuore infranto e ricomposto. Moderno, attuale, ma quanta fatica per entrarci in empatia.
Gabrielle è una giovane donna che in un mondo futuro dominato dall’A.I. deve per forza sopprimere tutte le sue emozioni. Questo vuol dire fare un repulisti del suo passato, ivi compreso quello sentimentale, di vite ed epoche precedenti, dove vi era sempre e comunque lui, Louis (George McKay) ad inseguirla e a corteggiarla, a costruire assieme un sentimento distrutto sul più bello, ma sempre agognato. Ma ora, in questa L.A. modaiola e senza tempo, in quest’era dove l’amore è un fantasma, che destino attende Gabrielle, che cosa c’è di vero e di inventato in quel passato nella Parigi della Belle Époque, in quel ragazzo che le teneva la mano? Esiste un passato? Esiste un futuro? Ma soprattutto, esiste ancora l’amore oppure la paura del domani, degli altri, lo ha reso impossibile in questo tempo? Tutte domande a cui La Bête dà subito una risposta ma non è la meta per Bonello che conta ma il viaggio, l’iter con cui ci parla dell’assenza di amore in quest’epoca dove l’uomo è stato messo in soffitta, dove parlarsi è un optional, la carne è succube della tecnologia. Grande dispiego di energie per omaggiare i maestri della Nouvelle Vague che fu, il dramma esistenziale che fece grande anche il cinema italiano, il cinema di genere soprattutto. C’è un po’ di melodramma e di thriller, c’è la tragedia romantica e la distopia in La Bête, ma è come se tutto fosse ovattato, indistinto, come se lo stile per Bonello contasse più della sostanza, della verità e del sentimento tenuto libero. Eppure, nonostante questo eccesso di autoreferenzialità, il film funziona emotivamente grazia ad un George McKay attualissimo come crisi del maschio e una Lea Seydoux che è la grande anima narrativa, la vera autrice sotterranea.
Parigi è sott’acqua, bruciano le bambole, le stesse fatte ad immagine e somiglianza di Gabrielle, ovale perfetta su labbra di rosa, occhi freddi e disperati di una donna che cerca l’amore assoluto, non lo trova mai, lascia un amante devoto e incorruttibile e ritrova un single vergine nell’era tecnocratica. Dove abbiamo sbagliato? Dove i sentimenti guidati da gesti e parole si sono tramutati in indici di gradimento per la macchina, il taglio di capelli, i followers, dove abbiamo ucciso la passione? Non lo sa Gabrielle, non lo sa neppure Louis, a cui McKay dona una disperazione misogina per solitudine, per esclusione, la stessa dei single di cui sarà formato il futuro. La tecnologia di L.A. è la nuova veggente dei vicoli bohemienne, ora sostituiti da stanze vuote, da volti intercambiabili, dalla solitudine in mezzo a tanti. La Bête insegue l’arte astratta, il simbolismo anche animale, con il piccione simbolo di ferite e di amore, che la assediano e la seguono. Scenografia fredda e distante, quadro impressionista per un amore senza tempo e senza speranza. L’amore l’abbiamo ucciso noi, pare dirci Lea, armata della sua solita morbida, normalissima e per questo incredibilmente potente bellezza. Qui mette in mostro tutto ciò che è stata come attrice, tutto ciò che sarà: non più la Marianne ma una nuova tipologia di interprete, autoriale e diva assieme. Eppure, nel finale feroce e attuale, che parla di violenza di genere e distruzione dell’empatia, della differenza tra sogno e realtà, l’umorismo grottesco e feroce sparisce, compare invece una resa incondizionata al culto della perfezione esteriore, alla morte dell’anima. Permane però il dubbio: non è che Bonello poteva dircelo in modo un po’ più semplice e meno vanitoso?