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L’esorcista: cinquant’anni dopo, il capolavoro di William Friedkin non ha ancora rivali

Pubblicato il 29 settembre 2023 di Marco Triolo

Il 5 ottobre, Universal distribuirà nelle sale italiane L’esorcista: Il credente, nuovo capitolo della saga iniziata ormai cinquant’anni fa da William Friedkin. Il film di David Gordon Green, come già fatto dal regista con i suoi Halloween, ignorerà tutti i sequel e si ricollegherà direttamente al primo, riportando in scena la Chris MacNeil di Ellen Burstyn e lo stesso demone Pazuzu. Nel frattempo, il capolavoro di Friedkin (scomparso da poco) è passato brevemente per le sale in versione Director’s Cut 4K. Abbiamo colto l’occasione per rivederlo, proprio nella versione voluta dal regista, in attesa dell’uscita del nuovo film.

Come si fa a parlare de L’esorcista 50 anni dopo? Come si fa a dire ancora qualcosa di originale? Sul film di William Friedkin è stato scritto e detto di tutto, e ci mancherebbe altro: nel 1973, alla sua uscita, fu uno shock culturale senza precedenti e, ancora oggi, resta uno dei film più spaventosi e inquietanti di tutti i tempi. Film, non semplicemente “horror”: sia chiaro, Friedkin non si è mai nascosto dietro a un dito e ha volutamente aggiunto scene esplicite (il crocifisso, la testa girata a 180°) non presenti nel romanzo – spesso a discapito delle proteste di William Peter Blatty, autore del romanzo e sceneggiatore del film -, con la precisa idea di spaventare il pubblico. L’esorcista È un horror, senza alcun dubbio. Ma è anche un film d’autore che fotografa William Friedkin all’apice del suo successo e della sua sicurezza dietro la macchina da presa. Potrebbe essere considerato l’archetipo dell’elevated horror, quel tipo di film di genere che intende essere qualcosa di più, se non fosse che probabilmente lo stesso Friedkin avrebbe rigettato con forza tale etichetta: L’esorcista non è un film che rifiuta il genere, ma che lo usa e lo cala nella realtà per fare ancora più paura.

Per parlare de L’esorcista, tocca partire da un dettaglio che raramente viene ricordato o citato, perché, quando si parla del capolavoro di Friedkin, tendenzialmente si citano le scene dell’esorcismo stesso. Eppure, questo particolare apparentemente insignificante ha fatto sbiancare più di uno spettatore all’epoca. Parliamo della sequenza in cui la povera Regan (Linda Blair) viene sottoposta a una serie di esami per determinare le cause dei suoi malanni e, in particolare, della scena dell’angiografia che tanto fece scalpore. È in effetti una delle scene più difficili da guardare, specialmente per chi (come chi scrive) fatica a sopportare i dettagli degli aghi e delle trasfusioni. Quello zampillo di sangue che fuoriesce dalla carotide di Regan fa vacillare anche il più indurito spettatore di film dell’orrore. E il cinema di Friedkin sta tutto lì.

Nel 1973, William Friedkin era reduce da Il braccio violento della legge, cinque Oscar vinti per uno dei più realistici e spietati polizieschi mai fatti. A Friedkin interessava portare il linguaggio del documentario nel cinema di finzione e, insieme al direttore della fotografia Owen Roizman (che avrebbe poi collaborato anche a L’esorcista), aveva fatto proprio questo, fotografando una Manhattan degradata, marcia e gelida con occhio chirurgico, senza compromessi. Quello stesso stile viene adottato anche ne L’esorcista, a parte un prologo nel deserto (che infatti ha un diverso direttore della fotografia, Billy Williams) che sembra fare il verso più a Lawrence d’Arabia (e anticipa Spielberg, in un certo senso). Lì sembra quasi che Friedkin abbia ceduto all’idea di confezionare un prodotto commerciale, ma, quando si passa alle fredde atmosfere di Washington, il regista de Il braccio violento della legge torna a galla.

Le storie delle difficoltà sul set, della supposta “maledizione” che il Diavolo in persona avrebbe scatenato sul film, sono ormai leggendarie, anche se molti pensano che gli incidenti non siano stati orchestrati dal Maligno, ma piuttosto causati dall’inesorabile tabella di marcia imposta da un regista tremendamente esigente, disposto a passare sopra tutto e tutti, persino l’incolumità dei suoi dipendenti, pur di raggiungere esattamente il risultato che aveva in mente. Friedkin rigirava continuamente anche scene già girate – costringendo la troupe a ricreare complessi effetti speciali -, altre volte si accontentava di un ciak (come nella scena in cui il padre Merrin di Max Von Sydow raggiunge la residenza MacNeil, immortalata sui poster), ma solo perché era andato così bene da rispecchiare l’idea di partenza. Questa attitudine lo avrebbe portato notoriamente alla catastrofe pochi anni dopo, quando, ormai certo del suo genio, si sarebbe inimicato tutta Hollywood realizzando un altro capolavoro (Il salario della paura) che fu anche uno dei massimi flop degli anni ’70.

E sì, probabilmente alcuni dei comportamenti tenuti da Friedkin sul set – come la sberla in piena faccia a William O’Malley, un vero prete, per prepararlo a una scena particolarmente intensa – oggi non sarebbero permessi. Eppure è proprio questo rigore formale nato da un genio a volte sregolato e sopra le righe a fare grande L’esorcista e tutti i migliori film di Friedkin. La sua narrazione asciutta, senza fronzoli, in cui ogni dettaglio è perfetto, dai set alla recitazione agli effetti speciali, e comunica esattamente quello che il regista voleva comunicare, è senza eguali.

Rivisto oggi, L’esorcista è un film incredibilmente positivo e ottimista. Al di là della fede cattolica, di cui il racconto è intriso, Friedkin è in grado di dire qualcosa di universale, che tocca tutti quanti, credenti o meno. L’esorcista è un film non tanto sul potere della fede, quanto su quello dell’empatia. Sono le connessioni che creiamo intorno a noi, il tessuto sociale, famigliare e amicale, a salvarci nell’ora più buia. È un gesto di altruismo – padre Karras (Jason Miller) che si fa possedere apposta e poi si sacrifica gettandosi dalla finestra – a salvare Regan. È la nascita di un’amicizia, tra padre Dyer (O’Malley) e il tenente Kinderman (Lee J. Cobb), a chiudere il Director’s Cut, con una citazione nemmeno troppo velata di Casablanca.

Laddove Il braccio violento della legge rappresentava l’umanità al suo peggio, un universo grigio in cui bene e male si confondono e il bene non necessariamente vince, L’esorcista tira una riga netta tra i due schieramenti: da una parte c’è la giustizia, divina o temporale che sia, rappresentata dai preti e da un poliziotto diametralmente opposto al Popeye Doyle di Gene Hackman (non a caso si chiama Kinderman, che in inglese vuol dire “Uomo più gentile”), dall’altro il male. La giustizia e il bene alla fine trionfano. In una scena reinserita da Friedkin nel Director’s Cut, Padre Karras chiede a Merrin “Perché proprio questa bambina?”. Merrin risponde che il punto è farci disperare, metterci di fronte al nostro lato animalesco. È proprio rifiutando la bestia e affidandoci a ciò che ci rende invece umani che possiamo sconfiggere il demone in noi.

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