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Io Capitano, la recensione del film di Matteo Garrone da Venezia 80

Pubblicato il 06 settembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Dai bastioni della Fortezza Europa, i migranti sono tutti uguali: non hanno un volto, non hanno una storia, sono soltanto notizie al telegiornale e strumenti di dibattito politico. Questa è la percezione di gran parte degli europei, ma esistono anche persone che lavorano per restituire un’identità alle vittime del Mediterraneo, come la Prof.ssa Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano che da anni è impegnata su quel fronte. Se Cattaneo affronta le conseguenze dei naufragi reali, artisti come Matteo Garrone hanno un altro sistema per intervenire sulle coscienze: usare il cinema per ribaltare il discorso, calandoci nella prospettiva di chi parte.

Da anonimi oggetti della cronaca, Io Capitano trasforma i migranti in soggetti, protagonisti delle loro storie. Ovviamente non è la prima volta che succede: Flee aveva fatto lo stesso, e anche Green Border di Agnieszka Holland – a sua volta in concorso qui a Venezia – adotta il loro punto di vista. Garrone sceglie però di mettere in scena l’alterità fra i migranti e l’Europa in modo ancora più radicale: l’intero film si risolve infatti nel viaggio, e le coste italiane restano un vago profilo all’orizzonte. È così che Io Capitano esclude completamente il nostro sguardo (di cui è già pieno il mondo) per privilegiare quello di chi si mette in cammino.

Seydou (Seydou Sarr) e suo cugino Moussa (Moustapha Fall) sono due adolescenti senegalesi che lasciano Dakar per coltivare sogni europei, dopo aver risparmiato un po’ di soldi lavorando. La madre di Seydou gli ha proibito di partire, e anche la sorellina preferirebbe non vederlo andare via, ma lui e suo cugino intraprendono il viaggio durante la notte. Dopo aver comprato dei passaporti falsi per entrare in Niger, pagano molto denaro per farsi portare in Libia attraverso il deserto, ma la traversata è molto più dura di quanto immaginassero.

Sarebbe facile cadere nel pietismo, ma Garrone non corre mai questo rischio. Le vite di Seydou e Moussa in Senegal sono ricche di contatti umani, tradizioni locali, affetti e lavoro, mostrate senza alcun paternalismo: al contrario, il regista “sparisce” per mettersi al servizio della storia e del contesto, lasciando parlare la vivacissima polifonia di Dakar. Tutto il resto è una tragica odissea contemporanea, messa in scena come un’avventura di ampio respiro che parte sempre dal cuore dei personaggi. L’afflato epico si fa sentire nelle panoramiche sulle auto che attraversano il deserto, o quando le inquadrature sorvolano il barcone che sfiora una piattaforma petrolifera nel Mediterraneo, ritratta come una struttura incomprensibile e aliena: fin dai tempi di Gomorra, sappiamo bene che Garrone ha la capacità di infondere un alone leggendario nella vita reale.

Al contempo, non si fa problemi a scendere tra i corpi dei migranti per raccontare le torture della mafia libica, e la riduzione in schiavitù a cui sono sottoposti. Ogni passo di Io Capitano è una martellata contro il muro di pregiudizi che li accoglierà in Europa, soprattutto da parte di chi ne sottovaluta le enormi sofferenze. Ma è anche una storia di speranza, perché il film restituisce loro la dignità di persone: non in balia degli eventi, ma decise a proseguire il cammino, a sopravvivere anche sull’orlo dell’abisso. La straordinaria umanità di Seydou sta proprio nella sua determinazione a non lasciare indietro nessuno, prendendosi responsabilità che non dovrebbero toccare a lui. Impossibile restare insensibili di fronte al suo grido di trionfo: è il culmine di un’esperienza apparentemente sovrumana, ben oltre l’immaginazione di chi osserva dai bastioni della Fortezza Europa.

Non a caso, gli occidentali non si vedono mai; al massimo ne sentiamo la voce impotente alla radio, o li immaginiamo oltre i finestrini di un elicottero. L’Europa è assente, le nazioni si scaricano il barile a vicenda, mentre il continente è uno spettro che si perde oltre il confine del mare. Ma Seydou non ha perso sé stesso, ed è questo che conta. Io Capitano è un’opera che intercetta le istanze del presente e le converte in azione: in altre parole, dimostra che un artista non può ignorare i moti della Storia, ma deve dialogare con essi, sfidando la visione dominante. Cinema di cui essere orgogliosi, una volta tanto.