L’idealizzazione della natura è un atteggiamento tipico di chi vive lontano da essa. Gli abitanti delle metropoli vedono nella natura una madre benevola che cura lo stress e il burnout, mentre chi è cresciuto in montagna o tra i boschi ha imparato a temerla, e anche a usarne i frutti per le più banali esigenze quotidiane. In una scena de Le otto montagne, il montanaro Bruno se la prendeva con i turisti di città per il loro atteggiamento idealizzante, ignaro delle difficoltà e delle esigenze pratiche connesse alla vita nella natura. Si tratta di due visioni antitetiche, come quelle che si scontrano in Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi, nato dalla collaborazione tra il regista giapponese e la compositrice Eiko Ishibashi: uno scontro di civiltà e giudizio tra due parti che sembrano parlare lingue diverse.
Siamo a Mizubiki, un villaggio nei pressi di Tokyo, dove il tuttofare Takumi (Hitoshi Omika) vive con la figlia Hana (Ryō Nishikawa). Le loro esistenze scorrono tranquille, ma vengono turbate dalla notizia di un nuovo progetto edilizio: qualcuno vuole costruire un glamping, un campeggio di lusso, non lontano dalla casa di Takumi. Lo scopo è offrire agli abitanti della capitale un luogo di relax in mezzo alla natura, ma ricco di comfort e servizi. Il problema è che la fossa settica potrebbe inquinare le acque locali, e Takumi lo fa notare durante un incontro pubblico con due giovani funzionari del progetto, Takahashi (Ryūji Kosaka) e Mayuzumi (Ayaka Shibutani). I responsabili, però, non sono disposti ad ascoltare le proteste della comunità, e si limitano ad accoglierne i suggerimenti più marginali. Quando i delegati ritornano a Mizubiki per comunicare le decisioni del capo, la situazione si fa ancora più critica.
L’incomunicabilità fra queste due formae mentis pare irrisolvibile: si nota nella magistrale scena dell’incontro pubblico, dove la cortesia istituzionale dei funzionari si scontra con il buonsenso di Takumi e dei suoi concittadini. Evil Does Not Exist non è però un film di conflitti violenti, almeno fino a quell’epilogo criptico e brutale che spiazza ogni aspettativa. È come se Hamaguchi lasciasse montare una rabbia taciuta, repressa, per farla esplodere in un singolo atto di violenza. Le sue inquadrature dal piglio contemplativo (esemplari le carrellate sulle fronde degli alberi che incorniciano il film) assecondano una narrazione pacata e ricca di silenzi, dove le parole talvolta sembrano di troppo. L’impressione è che la voce degli uomini sia un disturbo per la quiete della natura.
Takahashi e Mayuzumi, per quanto ben intenzionati, sono l’espressione della media borghesia di Tokyo, isolata nelle rispettive individualità. Al contrario, gli abitanti di Mizubiki fanno fronte comune, e Takumi esprime una solidarietà collettiva che i delegati della capitale non possono capire. Per loro, la natura è solo retorica da viaggio formativo: non è un caso che Takahashi accarezzi l’idea di trasferirsi al villaggio e cambiare vita, idealizzando (di nuovo) il contatto con la natura. Ma per Takumi è difficile prendere sul serio un volubile ragazzo di città.
Evil Does Not Exist è attraversato da un’ironia compassata, che fiorisce nei dialoghi laconici e nelle risposte secche. E, come molti film di Venezia 80, si nutre di polarizzazioni: cultura e natura, città e campagna, giovani e anziani. Hamaguchi le sintetizza in un’opera quieta e potente, immersa in un clima misterioso che – soprattutto nel finale – si apre a molteplici interpretazioni. Di certo lo spettatore è stimolato a meditare sui tentativi dell’uomo di addomesticare la natura, ma senza i didascalismi o i facili sottotesti di un racconto “a tesi”. L’esito è affascinante quanto enigmatico.