Se fosse uscito dieci anni fa, En Attendant la nuit sarebbe stato accusato di cavalcare l’onda lunga di Twilight. Oggi, però, la saga di Stephenie Meyer non ha più la stessa influenza sull’immaginario collettivo, e il film di Céline Rouzet si pone al di sopra di ogni sospetto, anche perché ribalta la premessa e il punto di vista del suo celebre predecessore.
Siamo tra le montagne della Francia orientale, in un villaggio di casette con giardino che – forse non per caso – ricorda i piccoli centri della provincia americana. L’adolescente Philemon Feral (Mathias Legoût-Hammond) si è appena trasferito laggiù con la famiglia, composta dal padre Georges (Jean-Charles Clichet), dalla madre Laurence (Élodie Bouchez) e dalla sorellina Lucie (Laly Mercier). I Feral fanno di tutto per sembrare una famiglia normale, ma nascondono un segreto: Philemon ha infatti bisogno di nutrirsi di sangue per vivere, e non può esporsi al sole per più di pochi secondi. È così fin dalla nascita, come vediamo nel prologo. Neonato, il piccolo Philemon mordeva il capezzolo della madre per berne il sangue al posto del latte. Ora, lei ruba sacche di sangue nel centro prelievi dove lavora, e lui le assume per endovena.
La vita del ragazzo è impostata per passare inosservato, ma la sua bellezza efebica e il fascino misterioso attirano l’attenzione di Camila Berthier (Céleste Brunnquell), coetanea e vicina di casa, che lo coinvolge nelle uscite con gli amici. Philemon, però, è troppo “strano” per quel gruppo di spacconi, e ben presto viene isolato. Oggetto di scherno, frustrato per le privazioni imposte dalla sua condizione, il giovane comincia a provare una sete implacabile, e si rende conto che bere il sangue è molto più soddisfacente che farselo iniettare in vena.
Insomma, pensare a Twilight è inevitabile, ma la realtà è che En Attendant la nuit ha un approccio moderatamente originale sul tema del vampiro. Calato in un’atmosfera da dramma familiare, il “mostro” perde tutta la sua eccezionalità meravigliosa e diventa un vero reietto: non ha poteri, solo debolezze, e inoltre è l’unico della sua specie. Se i vampiri del nostro immaginario condividono uno stile di vita e una cultura alternativi, formando un vero e proprio sottomondo sociale, Philemon è invece totalmente solo, e può soltanto invidiare le abitudini dei “normali”. La sua condizione è tragica e senza scappatoie, mitigata soltanto dall’amore della famiglia; eppure, i conflitti esplodono anche tra le mura di casa, e Rouzet li mette in scena con un realismo lontanissimo dai patinati vampiri hollywoodiani.
Come nel recente Wolfkin, il contrasto fra l’elemento fantastico e il contesto verista impreziosisce la rappresentazione del mostro classico, riletto qui alla luce di un ambiente quotidiano. Anche la storia d’amore con Camila è priva di eccessi stucchevoli, e Rouzet è abile a entrare nell’intimità di un ragazzo emarginato: quando porta la sorellina a vedere La notte dei morti viventi di Romero, e i ragazzi del posto cominciano a vessarlo, le sue lacrime raccontano una verità che molti film evitano di ammettere (soprattutto in tema di adolescenti maschi).
L’esito è prevedibile, anche perché En Attendant la nuit non fa nulla di rivoluzionario nel genere vampiresco, limitandosi a darne una propria rilettura in veste naturalista. Ciononostante, ha il merito di non cercare soluzioni consolatorie, e di riconoscere la tragicità di una figura che non ha vie d’uscita. L’approccio intimista – ma privo di retorica – lo allontana dai teen drama d’oltreoceano, offrendo un’interpretazione europea di questo genere, tutta giocata per sottrazione. Una parabola drammatica che per la regista è metafora dei suoi ricordi adolescenziali, ma che risuonerà nell’esperienza di chiunque si sia mai sentito inadeguato, isolato, fuori posto.