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Assassinio a Venezia, la recensione del film di Kenneth Branagh

Pubblicato il 12 settembre 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Il Poirot di Kenneth Branagh continua a evolversi sul grande schermo, quantomeno in termini di saga cinematografica. Se Assassinio sul Nilo ne espandeva la “mitologia”, ampliandone gli orizzonti come personaggio seriale dotato di origini ben definite, Assassinio a Venezia opta invece per una narrazione più contenuta, e forse più allineata con la tradizione del genere.

Ritroviamo l’infallibile detective a Venezia, nel 1947. Sono trascorsi dieci anni dalla fatale crociera in cui ha incontrato la morte anche il suo amico Bouc, e Hercule Poirot è stanco: d’altra parte, veder morire i propri cari e assistere a due guerre mondiali sarebbe devastante per chiunque. Ora, Poirot evita i potenziali clienti con l’aiuto di una guardia del corpo (Vitale Portfoglio, interpretato da Riccardo Scamarcio), e non nasconde la sua profonda disillusione nei confronti del mondo. Quando però la giallista Ariadne Oliver (Tina Fey) gli propone di assistere a una seduta spiritica della medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh) per smascherarla, il detective accetta di partecipare: non crede nell’aldilà, né nell’esistenza di un ordine superiore, e non sopporta i ciarlatani che sfruttano la fede altrui.

La seduta si svolge nella residenza di Rowena Drake (Kelly Reilly), cantante lirica in lutto per la morte della figlia, precipitata dal balcone di casa qualche mese prima. È la notte di Halloween, e il palazzo ha una storia inquietante: ex orfanotrofio, ospitò molti bambini che morirono per l’inadempienza di medici e infermiere, e ora si dice che gli spiriti ne infestino le stanze. Oltre alla stessa Rowena, la seduta coinvolge il tormentato medico Leslie Ferrier (Jamie Dornan), suo figlio Leo (Jude Hill), la governante Olga Seminoff (Camille Cottin) e Maxime Gerard (Kyle Allen), ex fidanzato della figlia di Rowena. C’è anche Desdemona Holland (Emma Laird), assistente personale di Joyce. Ovviamente ci scappa il morto, e Poirot deve rimettere in moto il suo intelletto per trovare il colpevole.

Al netto di alcune prevedibili forzature (i festeggiamenti di Halloween a Venezia?), la scelta di spostare l’ambientazione di Poirot e la strage degli innocenti si rivela sensata: le atmosfere notturne della città lagunare hanno infatti una patina sulfurea che si sposa benissimo con i toni del film. Kenneth Branagh e lo sceneggiatore Michael Green propongono un adattamento molto libero del romanzo di Agatha Christie, anche perché questa versione del detective appartiene ormai più a Hollywood che alla scrittrice inglese. Ciononostante, le sfumature action dei film precedenti lasciano il posto a un’impostazione più classica, fedele alle regole del whodunit: l’indagine di Poirot si dipana per gradi attraverso gli interrogatori dei personaggi, che svelano così il loro passato e i possibili moventi. Una struttura un po’ rigida e ripetitiva, ma coerente con la tradizione del giallo, e scevra di colluttazioni o inseguimenti. La violenza resta sempre fuori campo.

Assassinio a Venezia, in effetti, baratta l’avventura per l’horror, e permette a Branagh di valorizzare i suoi caratteristici piani olandesi, le inquadrature sbilenche di cui va matto: l’effetto che ne deriva rievoca una realtà distorta, più vicina all’incubo che alla realtà. Non a caso, il film lavora molto sul montaggio e sugli effetti sonori (rumori bruschi e improvvisi, tonfi, finestre che sbattono, versi di animali) per offrire una buona dose di jump scare, trasmettendo l’idea di una minaccia che può colpire in qualunque momento. Aiuta inoltre l’unità di luogo, molto più precisa rispetto ai film precedenti, che in qualche modo erano sempre in movimento. Se si esclude il prologo, l’azione si svolge interamente nel palazzo durante una tempesta, alimentando l’isolamento e la frustrazione delle potenziali vittime.

Il limite, se mai, sta proprio nell’intreccio: la risoluzione del mistero ha ben poco di sorprendente, ed è meno complessa che in passato, anche perché si affida a un topos narrativo già noto. Più che nella trama in sé, il cuore di Assassinio a Venezia batte nelle atmosfere lugubri, nelle attese tra una svolta del racconto e l’altra, e questo lo differenzia moltissimo dai predecessori. Peccato che la continuità con Assassinio sul Nilo sia pressoché assente, considerando l’epilogo di quest’ultimo e la sua importanza nella vita di Poirot. D’altro canto, le sue avventure si arricchiscono di nuovi comprimari: i fan, in particolare, saranno contenti di vedere l’Ariadne Oliver di Tina Fey, anche perché l’ex autrice del Saturday Night Live restituisce perfettamente la boria e il sarcasmo della giallista.

Lei e Poirot sono impegnati in un’indagine che mette in discussione le loro stesse convinzioni, ma il film – al contrario dei libri di Christie – adotta una posizione ambigua sul sovrannaturale: come spesso accade a Hollywood, l’ultraterreno sembra essere il solo modo per dare un senso al mondo.