Con l’esclusione del western, non esiste forse un genere cinematografico più codificato dell’horror: radicato com’è in soluzioni visive e narrative ricorrenti, l’horror ha infatti un linguaggio ben preciso, facile da ricondurre a una “norma” condivisa. Allo stesso tempo, però, è anche uno dei generi più permeabili alle influenze esterne, uno dei più duttili e soggetti a interpretazione. In fondo, da Richard Matheson in poi, il raccapricciante si nasconde spesso tra le pieghe della quotidianità, e può insinuarsi anche laddove non ci aspetteremmo di trovarlo: un insegnamento che Wolfkin prende davvero alla lettera, incrociando la parvenza di un dramma mitteleuropeo con le sfumature abominevoli dell’orrore.
Il regista lussemburghese Jacques Molitor, in effetti, costruisce un’atmosfera di banale quotidianità che viene progressivamente contaminata dal fantastico. Elaine (Louise Manteanu) vive a Bruxelles con il figlio Martin (Victor Dieu), il cui padre si è dileguato prima che lui nascesse. Il rapporto fra la madre e il bambino è quasi simbiotico, ma Martin comincia a mostrare una strana aggressività, che culmina quando morde un compagno durante la sua festa di compleanno. Non sapendo come gestire la situazione, Elaine si rivolge ai nonni paterni del ragazzo, Adrienne (Marja Leena-Juncker) e Joseph Urwald (Marco Lorenzini), ricchi viticultori della regione della Mosella, in Lussemburgo. La coppia non sapeva di avere un nipote, e li accoglie entrambi nella sua lussuosa magione, salvo poi rivelare una misteriosa natura ferina che Martin sembra aver ereditato.
Il titolo internazionale non nasconde che si tratta di licantropia, seppur riletta con una certa originalità rispetto al folclore e alla tradizione cinematografica. Di fatto, Wolfkin intreccia l’orrore con delle dinamiche di potere molto riconoscibili, legate ai nostri tempi: la famiglia paterna di Martin incarna l’oppressione sociale della classe economica dominante, elitista e patriarcale, che trasmette per linea maschile un’educazione basata sulla forza e sulla violenza. Il resto del mondo è composto unicamente da prede, a cominciare dagli immigrati clandestini che osano attraversare le terre degli Urwald: lupi e pecore, insomma, anche se la metafora è meno didascalica di quanto possa sembrare.
L’intelligenza di Molitor – coadiuvato in sceneggiatura da Régine Abadia e Magali Negroni – sta nel centrare l’antitesi fra la grammatica dell’horror e quella del dramma familiare, dove il verismo della messa in scena fa risaltare per contrasto ogni manifestazione orrorifica, come la prima trasformazione di Martin. Non c’è quindi da stupirsi che gli Urwald siano così credibili nel ruolo di aguzzini: danno volto a quel genere di sopraffazione che, per proseguire il suo operato, deve integrarsi nel sistema vigente. In tal senso, il conflitto tra Elaine (non credente, di ceto medio-basso, progressista) e i nonni di Martin (credenti, ricchi, conservatori) si gioca anche sul piano della religione. Contrariamente a lei, gli Urwald sono praticanti, e vedono l’eucarestia come un rito fondamentale per consolidare i rapporti: lo celebrano in pubblico nella maniera tradizionale, per poi distorcerlo in forma privata durante una cena di famiglia. Il titolo originale del film è proprio Kommunioun, non a caso.
Fra piccole citazioni (più o meno volontarie) da Pericolosa partita e Non aprite quella porta, Wolfkin trova una strada alternativa alla resa dell’orrore, tutta giocata sullo straniamento dei toni e sulle atmosfere raggelanti. Non ha il seducente alone da fiaba nera di Lasciami entrare, ma con il film di Alfredson condivide la rilettura pacata e intimista di un mostro classico, che mette al centro i rapporti fra i personaggi. Qui, la centralità della relazione madre-figlio rievoca un filone molto in voga nell’horror contemporaneo, ma l’esito si avvicina di più alla precedente regia di Molitor – il dramma Mammejong, dove un figlio cerca di allontanarsi dal rapporto morboso con la madre – che al cinema anglosassone. Se in quest’ultimo il sovrannaturale conduce spesso a una ricomposizione del legame materno (pensiamo a Babadook, Umma, Come and Play…), Wolfkin intraprende una strada diversa, forse più matura: crescere significa guadagnare indipendenza, e il vero amore consiste anche nell’assecondare quel desiderio di autonomia. Gli Urwald coltivano la miope illusione di addomesticare la natura con la cultura, mentre Elaine ne riconosce il diritto alla libertà. L’istinto, alleggerito da pregiudizi e sovrastrutture, vince così sugli artificiosi rituali della civiltà umana.