A breve tornerà a Venezia con The Palace, il suo nuovo film, dopo esservi stato quattro anni fa portando un’altra gemma come fu L’Ufficiale e la Spia. Roman Polanski spegne 90 candeline, lo fa, a dispetto delle controversie, degli scandali, che lo hanno reso negli ultimi anni una sorta di pari all’interno dell’establishment cinematografico, con la statura di un grandissimo protagonista, di un regista capace di imprimere una svolta decisiva nell’arte cinematografica, di proporre una visione, uno stile e una narrativa, che non smettono di sedurre, impressionare e coinvolgere.
In quel 1974, Roman Polanski, poco prima di essere costretto a lasciare gli Stati Uniti, confeziona un capolavoro incredibile, un film in grado di rivoluzionare il concetto di noir, di crime. Chinatown si pone dal punto di vista estetico e come eleganza narrativa ancora oggi come metro di paragone del genere.
L’insieme è nobilitato da un cast sensazionale, su cui brilla un Jack Nicholson capace di fare del suo J.J. Gittes l’erede dei grandi detective della tradizione dell’hard boiled americano, ma spingendosi verso vertici di complessità e caratterizzazione, che neppure Humphrey Bogart era riuscito a comporre. Faye Dunaway, John Huston, completano il triangolo di un dramma che, se da un lato si connette alle anime spezzate e folli della metropoli violenta cara alla letteratura di un James Ellroy più che di un Raymond Chandler, dall’altro lato diventano anche la metafora di un percorso intimo di rivelazione e purificazione. Connesso alle California Water Wars, serve a Polanski per decostruire il sogno americano, togliendovi quella patina di romanticismo, di mitizzazione, che la tradizione cinematografica vi aveva connesso. A tutto questo, va aggiunta anche la capacità, con questo microcosmo narrativo, di creare una sorta di totem mostruoso sulla società americana, fatta di ingordigia, crudeltà, lussuria, continuando la distruzione del focolare domestico a lui cara e lo stravolgimento dei valori tradizionali. Film gigantesco anche per ciò che riguarda la sua estetica, Chinatown è una di quelle opere per la quale la definizione di capolavoro è semplicemente chirurgica.
Dopo Schindler’s List di Steven Spielberg, si pensava che non si potesse spingersi oltre nel parlare della tragedia dell’Olocausto. Roman Polanski invece nel 2002 dimostra che lui era in grado di concepire forse il film definitivo su quella tragedia. Biopic dedicato all’assurda e terrificante vita del pianista polacco Władysław Szpilman, lancia nel firmamento un intenso e commovente Adrien Brody, capace di commuovere il mondo con un’interpretazione magistrale, all’interno di quella che Roman Polanski rende un’odissea del dolore, della sopravvivenza, dell’orrore. Il Pianista è il grande tributo di Polanski alla Polonia distrutta dal Terzo Reich e alle persecuzioni della svastica verso gli ebrei, a sé stesso e al proprio vissuto.
Ci dona un’immagine realistica e totalmente priva dell’epica o della volontà di essere consolatori cara alla tradizione hollywoodiana. Semplicemente straordinario per come riesce a far afferrare il dileguarsi della normalità della quotidianità di fronte alla fame, alla paura della morte, all’egoismo dettato dalla necessità di sopravvivere, il film ha però una visione della storia della Shoah scevra dall’essere prevedibile.
Il Capitano tedesco di di Thomas Kretschmann infatti si erge a simbolo della volontà individuale di staccarsi dalla massa, dell’umanità che riesce a sopravvivere nonostante tutto. Grandissimo successo di pubblico e critica, è l’ennesima prova del talento visivo e narrativo del cineasta polacco.
Horror satanista semplicemente eccezionale per scrittura e regia, Rosemary’s Baby, tratto dal romanzo di Ira Levin, nel 1968 lascia il pubblico e la critica di stucco. Ancora oggi si erge come simbolo fondamentale non solo e non tanto della contestazione dei pilastri della società occidentale classica, ma anche e soprattutto come rinnovamento dell’immagine femminile, così come del concetto di maternità.
Mia Farrow sposa incinta dell’egoista e falso attorucolo interpretato da un grandissimo John Cassavetes, a poco a poco diventa vittima sacrificale di un’infernale macchinazione demoniaca, che ne assale mente e corpo. Il tutto diventa cardine di un iter cinematografico allucinante, da incubo, capace di creare una sorta di nuovo sottogenere, poi imitato senza fortuna una marea di altre volte da tanti altri registi nei decenni a seguire. Polanski crea un’opera di radicale rottura con i topoi del genere horror, rivoluzionando il concetto di tensione, di crescendo e sospetto, creando una sorta di manuale su come far avvertire costantemente le sensazioni di pericolo. Finale ancora una volta ben distante dall’happy end consolatorio hollywoodiano, anticipa l’ondata di horror demoniaci che poi avrebbero caratterizzato gli anni ‘70 ed ‘80, appropriandosi però anche di una potenza semantica che riguarda la politica. Si scorge la ribellione dell’imminente contestazione, la ribellione delle donne contro il patriarcato, per un film che a volte pare quasi la metaforica cronaca di qualcosa già in atto nella società. Allo stesso tempo, ci ricorda che a dispetto della tecnologia, della corsa allo spazio di quegli anni, proprio la paura di forze oscure, il ritorno ad un certo oscurantismo e spiritismo, avrebbero poi giocato un ruolo preponderante nella società americana degli anni a venire.
Al netto della bontà di alcune trasposizioni recenti, su tutte quella con protagonista Denzel Washington, il Macbeth di Roman Polanski rimane ancora oggi insuperato per fedeltà alla semantica shakespeariana, trepidante bellezza estetica, nonché intensità delle interpretazioni. Chiaramente connesso alla teatralità anche per la sua natura di collaborazione con il regista Kenneth Tynan, questo Macbeth però è soprattutto il film più personale, più viscerale, da certi punti di vista anche più coraggioso di Polanski, dato il suo profondissimo legame con la tragedia che lo aveva colpito poco prima, con l’assassinio della moglie Sharon Tate. Quella morte, ma poi la morte in sé, aleggia in modo più o meno diretto per tutta la durata di questa tragedia gargantuesca, con un elevatissimo tasso di violenza, ma anche con una grazia e capacità di coinvolgere lo spettatore semplicemente unica. Macbeth, la sua scalata al potere fatta di crudeltà, ingordigia, dello sguardo folle di Jon Finch, la sua relazione malata e simbiotica con la moglie (una bravissima Francesca Annis) mai più sono state rappresentate in modo così fedele, allo stesso tempo così rivoluzionario. Questo film in costume, non è solo una delle migliori trasposizioni cinematografiche di un’opera del grande poeta inglese, ma ha determinato anche un nuovo canone per le stesse, dimostrando come si poteva comunque rinnovarle pur senza venendo meno alla matrice originaria. Questo a dispetto del fiasco al botteghino che Polanski subì da questo film, anche per le polemiche circa il legame con l’affaire Manson.
Film di debutto semplicemente sensazionale, tra i più sorprendenti di sempre, Il Coltello nell’Acqua è un thriller erotico di pregevolissima fattura, la prima manifestazione della capacità incredibile di rinnovare e rivoluzionare la narrativa cinematografica da parte di Roman Polanski. Una coppia di mezza età in visita sui Laghi Masuri su una barca a vela, un autostoppista che finisce letteralmente dentro quella vacanza spensierata, per poi dare il via ad una sorta di gara machista che sottintende un’attrazione omoerotica rifiutata ed agognata. Sono solo alcuni degli elementi più preziosi per un dramma che Roman Polanski dirige con mano sopraffina e che al di là della struttura narrativa (in fin dei conti è abbastanza basilare) ha però nella complessità delle interazioni, nello sguardo del regista che si fa intimo, a tratti quasi oppressivo, la chiave di volta. Anche qui, come in gran parte del suo cinema, il concetto di fattore esterno, di scontro generazionale e tra i sessi, gioca un ruolo preponderante, così come quello dell’assenza di una verità universale e dell’incomunicabilità. Pure in questo caso avremmo assistito nei decenni a seguire della proliferazione di tanti epigoni, di cui solo alcuni però sono riusciti ad essere degni dell’originale, accolto in modo trionfante alla Mostra di Venezia. Il Coltello nell’Acqua è stato il film capace di lanciare verso il successo uno dei registi a cui dobbiamo di più, per quello che riguarda la capacità di stupirci, di spaventarci ma in generale di tratteggiare ogni possibile sfumatura dell’interazione umana. Di tale percorso, questo thriller ammaliante e ambiguo, rimane il primo mattone, la prima manifestazione.