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Oppenheimer: il respiro del fuoco

Pubblicato il 24 agosto 2023 di DocManhattan

C’è questo momento, in Oppenheimer di Cristopher Nolan: è un momento che ogni singolo spettatore in quella sala piena, ieri, aspettava sin dall’inizio del film. Nel silenzio che precede il boato, il bagliore dell’esplosione per cui tutte quelle menti brillanti sono finite a vivere nel deserto del Nuovo Messico e gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari. J. Robert Oppenheimer ansima, sconvolto e allo stesso tempo estasiato dal fuoco dell’atomo che lui, novello Prometeo, ha rubato agli dei della meccanica quantistica. Quel fuoco respira e con esso lo fa il pubblico, nella più devastante risoluzione della tensione che il cinema abbia conosciuto negli ultimi anni. Basterebbe quel momento per giustificare la visione delle tre ore di Oppenheimer. Non fosse che l’ultima fatica scritta e diretta da Nolan ha tanto altro lì a giustificare i pareri entusiastici che ne avrete letto in giro (qui su ScreenWeek c’erano già due recensioni del film. Qui quella di Roberto Recchioni).

PERCIÒ FACCIAMO IL CONTRARIO…

…e partiamo dalle poche cose di Oppenheimer che mi sono piaciute meno. Tanto non intaccano il valore assoluto di un film pazzesco, che consiglierei in ogni caso a chiunque. E dunque: la prima parte della pellicola ha una struttura (forse inevitabilmente?) didascalica. C’è la necessità di mettere tutte le pedine sulla scacchiera, di spiegare il contesto, di far capire perché Oppenheimer fa quello che fa. E lì un po’ si sente il peso del biopic che vuole essere preciso (il film, ricordiamolo, è tratto dalla biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, di Kai Bird e Martin J. Sherwin).

Quel tono didascalico sconfina in strizzata d’occhio per un paio di figure/nomi conosciuti da tutti. Eppure in tre ore non si trova lo spazio per sviluppare meglio il personaggio di Jean Tatlock (Florence Pugh), che per la maggior parte del tempo sembra impegnata a far sesso con o gettare i fiori del protagonista (dell’importanza della sua figura nella vita di Oppenheimer parla questo articolo de Il Post).

Altre obiezioni? No, sinceramente no. Perché il resto è una prova d’attore magistrale di Cillian Murphy, punta di diamante di un cast enorme, che spazia da Emily Blunt a Matt Damon, da Robert Downey Jr. a Josh Hartnett, Kenneth Branagh, Rami Malek, Casey Affleck, Jack Quaid. Oppenheimer è uno di quei film che si possono permettere attori che altrove sarebbero protagonisti solo per fargli recitare un paio di battute in tutto.

UN NOLAN DIVERSO

I due piani temporali, uno in bianco e nero e l’altro a colori, una grande quantità di figure e le epocali ripercussioni storiche di quel progetto scientifico (la guerra vera e quella Fredda, i presidenti, la politica), collassano nella parte finale nella dimensione soprattutto interiore del protagonista, portato a una posizione critica nei confronti di quanto lui stesso aveva iniziato, soprattutto dopo l’utilizzo non necessario dei due ordigni atomici sul Giappone. Nel corso degli anni vediamo l’Oppenheimer di Murphy invecchiare e venire schiacciato: dal peso delle sue azioni e dalle sue amicizie, dal suo ruolo e dalle sue scelte. Il che mi porta a un’altra considerazione, che si riallaccia proprio al modo in cui ho sempre visto buona parte dei film di Nolan. Perché questo è diverso.

Il mio rapporto con le pellicole di Christopher Edward Nolan da Londra partì benissimo, all’inizio del secolo, con Memento. L’ho adorato, quel film. Ma tante delle sue opere successive, da Insomnia giù fino a Tenet, non mi hanno mai travolto, smosso qualcosa dentro. Le trovavo spesso impeccabili tecnicamente, un grande cinema ma soprattutto cerebrale, con poca anima. Fredde come il toni della loro fotografia. Faceva eccezione Dunkirk, ma perché quella freddezza la usava a suo vantaggio, la cavalcava, trasformandola nel gelido terrore di un nemico quasi invisibile da infilare sotto la pelle dello spettatore.

LA SORTE DEL TITANO

Bene, Oppenheimer l’ho trovato invece viscerale, tumultuoso come le visioni che si affastellano nella mente del suo tormentato protagonista, a tratti anche carnale. Quando c’è da mettere a nudo, letteralmente, il suo rapporto con Jean o di suggerire, senza mostrarli direttamente, gli effetti sulla carne delle atomiche piovute su Hiroshima e Nagasaki. Oppenheimer è il tremore impercettibile degli occhi sbarrati di Cillian Murphy, il padre della bomba che da arrogante scienziato e mancato avvelenatore diventa una figura tragica, un paria. La mente geniale e ribelle, solo uno scomodo fardello per il potere. L’ex uomo da copertina che resta sotto i riflettori solo perché si teme possa essere amico del nuovo nemico, e passare le sue conoscenze ai russi, altrimenti a nessuno importerebbe più niente di lui. Una volta consegnato il fuoco agli umani, del resto, cosa importa a questi ultimi di Prometeo e della punizione toccata al titano?

Oppenheimer è una visione disturbante, e non – come si vociferava alla vigilia – per dei contenuti particolarmente espliciti. Ti disturba per quello che ti racconta, e lo sapete entrambi che lo farà: lo sai tu, perché sai di cosa parla, e lo sa il film, che vuole farti vedere quanto perversa e letale possa essere l’applicazione di una scoperta teorica sensazionale. Quando la scienza diventa un deterrente dopo averne dimostrato gli effetti: giusto un’altra clava da mulinare in aria, come cavernicoli del ventesimo secolo. A scottarsi e bruciare con quel fuoco il mondo, tanto, sono capaci tutti.