Michael Mann ha sempre avuto un modo tutto suo di interiorizzare il melodramma: basti pensare all’epica criminale di Heat, dove il dualismo fra poliziotto e fuorilegge nasconde un trattenuto melò virile, ricco di non-detti e virtù cavalleresche. In Ferrari, però, Mann non ha bisogno di mascherare il melodramma dietro generi apparentemente antitetici, poiché la biografia stessa di Enzo Ferrari si presta a un’interpretazione di questa natura, anche grazie al contesto che la circonda.
Basato sul libro Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine di Brock Yates, il biopic ha l’arguzia di isolare un momento preciso nella vita dell’imprenditore modenese – quattro mesi del 1957 – per farne la sineddoche della sua intera vita, un arco temporale rappresentativo dei suoi drammi e dei suoi successi. Ferrari (Adam Driver) ha appena perso il figlioletto Dino, e l’azienda è sull’orlo del fallimento: per rilanciare le vendite, la sua scuderia deve assolutamente vincere la Mille Miglia, superando la concorrenza della Maserati. Intanto, il rapporto con la moglie Laura (Penélope Cruz) è sempre più in crisi, e l’amante Lina (Shailene Woodley) gli chiede di riconoscere pubblicamente il figlio che ha avuto da lei, Piero. Intanto, il talentoso pilota spagnolo Alfonso De Portago (Gabriel Leone) viene assunto come nuovo pilota e si unisce alla squadra della Mille Miglia.
Si parlava di melodramma, e infatti Michael Mann opta per un taglio operistico che influenza soprattutto le musiche (esemplare la scena con La traviata), assecondando un’idea che dell’Italia hanno soprattutto gli anglosassoni. Mann, insomma, si adatta al contesto, e Ferrari è esemplare di come il regista vede non solo l’Italia, ma anche il cinema italiano. È forse per questo motivo che non ritroviamo la sperimentazione fotografica e la ricercatezza formale dei suoi film degli anni Duemila, ma un approccio più vicino al dramma da camera. Non a caso, i legami affettivi del protagonista occupano più spazio rispetto alle gare, dove comunque Mann dimostra un controllo rigoroso sia dei movimenti di macchina sia del montaggio – firmato da Pietro Scalia – per restituire sullo schermo un’idea di velocità. Se si escludono i due incidenti automobilistici (invero un po’ grotteschi nella loro resa “spettacolare”), l’azione è però tutta parlata, e si coagula negli scontri verbali tra Enzo, Laura, Lina e i membri della scuderia.
Mann sceglie quindi un approccio naturalistico, volto a rendere in modo credibile – e non artificioso o elaborato – la luce e i colori dell’Italia dell’epoca. C’è chiaramente un’idea di messa in scena dietro questa soluzione, ma al contempo Ferrari rischia di appiattirsi su una patina televisiva poco convincente, seppur dotata di una certa coerenza. Senza dubbio ha il merito di valorizzare lo spirito avventuroso di Enzo, che vendeva automobili al solo scopo di fare le gare, e non viceversa: una spinta verso il superamento dei limiti che alimenta anche il suo cinismo di fronte alle tragedie pubbliche, mentre in privato emerge tutto il suo dolore per la perdita del figlio e la sua difficile situazione familiare. A tal proposito, Mann si affida alle doti eclettiche di Adam Driver, che dietro l’ottimo make-up di Elisabetta Arlotti e Aldo Signoretti si rivela un Ferrari alquanto verosimile.
Resta comunque un biopic costellato di quegli elementi “folcloristici” che all’estero amano tanto (l’opera, la gelosia, le reazioni spropositate…), ma con meno eccessi rispetto ad altre produzioni ambientate in Italia, e certamente senza il ridicolo involontario di un House of Gucci, giusto per citare il caso più recente. Non sarà ai vertici della filmografia di Mann, ma la sua passione per questa storia è tangibile, e l’esistenza stessa del film – dopo decenni di tentativi falliti e avvicendamenti nel cast – è una vera liberazione.