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Dogman, la recensione del film di Luc Besson da Venezia 80

Pubblicato il 31 agosto 2023 di Lorenzo Pedrazzi

C’è stato un tempo, agli inizi della sua carriera, in cui Luc Besson era considerato un innovatore: fra gli anni Ottanta e i primi Novanta, il regista francese ha di fatto creato un’industria del cinema di genere nel suo paese, lanciando un’intera generazione di colleghi negli ambiti dell’horror, dell’azione e del fantastico. Con gli anni Duemila, però, Besson ha smesso di anticipare le tendenze, limitandosi a cavalcare mode già esistenti sia come produttore sia come regista. Tra i suoi film dell’ultimo ventennio, Dogman è probabilmente quello di maggiore impatto culturale – nel senso che potrebbe davvero trovare un posto nello Zeitgeist in cui viviamo – ma resta comunque un’opera derivativa e fondamentalmente populista.

Il protagonista è Caleb Landry Jones nel ruolo di Douglas, giovane uomo arrestato in una notte di pioggia mentre guida un camion pieno di cani. Vestito in abiti femminili, il ragazzo viene valutato da Evelyn (Jojo T. Gibbs), psichiatra con cui stabilisce un rapporto di fiducia. Accetta quindi di raccontarle la sua storia: Douglas nasce in una famiglia che si guadagna da vivere con i combattimenti fra cani, vittima di un padre fanatico religioso e di un fratello altrettanto violento. Dopo aver scoperto che il piccolo Douglas porta da mangiare agli animali di nascosto, i due lo rinchiudono nella gabbia con i cani, da cui riesce a fuggire solo dopo che un proiettile del padre gli danneggia la colonna vertebrale, costringendolo su una sedia a rotelle. Douglas cresce quindi in una casa famiglia, e si appassiona al teatro grazie a un’insegnante di sostegno. L’amore per i cani e quello per i travestimenti segnano quindi il suo avvenire: Douglas lavora in un canile e comincia a esibirsi in un locale di drag queen, ma al contempo agisce al di fuori della legge per ridistribuire le ricchezze e aiutare il vicinato.

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane” recita l’epigrafe di Alphonse de Lamartine, ed è proprio l’amore per i cani a guidare Dogman: non a caso, il protagonista dichiara subito la sua preferenza per queste straordinarie creature, che “hanno le stesse virtù degli uomini, ma senza i vizi”. Ovviamente non è difficile conquistare l’affetto del pubblico con una premessa del genere, anche perché Besson scrive i suoi personaggi come archetipi più che come persone: il padre cattivo, la madre debole, l’insegnante amorevole… l’unica ad avere una caratterizzazione vagamente credibile è la psichiatra, che quantomeno ha un passato e una situazione familiare manifesta.

La sceneggiatura è abile a suscitare le reazioni giuste nel momento giusto, ma sembra mettere insieme tre film diversi allo stesso tempo, con idee un po’ troppo disarticolate (per quanto interessanti). Certo, le buone intuizioni non mancano: di fronte a un’eredità maschile brutale e prevaricatrice, Douglas trova sé stesso nella fluidità di genere, conseguenza diretta della sua attività teatrale. Ha senso che il protagonista ami travestirsi (mascherandosi, nasconde un volto segnato dal trauma) e che adori i cani (con cui condivide la sventura dei soprusi paterni), ma il tutto appare disorganico nell’economia della trama. Il copione accumula idee senza molte correlazioni, e desta l’impressione di essere troppo meccanico, troppo “scritto”. Il punto, però, è che gioca facile: come in Joker, anche qui c’è un reietto maltrattato dalla società che decide di reagire a modo proprio, e gli elementi religiosi sfociano nell’iconografia più ovvia di tutte.

Dogman, insomma, si appella alla pancia degli spettatori, senza mai sfidarne la morale, i sentimenti o le reazioni collettive. Preso in questi termini, non c’è dubbio che funzioni: è intrattenimento molto curato sul piano formale, grazie all’efficace fotografia d’atmosfera firmata Colin Wandersman e alla regia esperta di Besson. Al contempo, però, risulta fin troppo algido e smaccato nelle sue intenzioni, poiché palesemente costruito a tavolino. Bisogna però riconoscergli il merito di aver dato una grande opportunità a Caleb Landry Jones: attore troppo spesso relegato in odiosi ruoli secondari, ma che qui dimostra tutto il suo talento con una performance febbricitante, piena di fascino ambiguo e dolore represso. Nei suoi sguardi taglienti c’è il meglio del film.