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Comandante, la recensione del film d’apertura di Venezia 80

Pubblicato il 30 agosto 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Fino a qualche anno fa, raccontare la vicenda di Salvatore Todaro e del Comandante Cappellini sarebbe stato impensabile per il cinema italiano: valga come esempio quella scena de Il caimano in cui Silvio Orlando cerca di convincere un dirigente RAI – Antonio Catania, prefigurazione del suo ruolo in Boris – a produrre il film su Silvio Berlusconi, facendogli notare che la sceneggiatura ha delle potenzialità spettacolari; c’è persino una scena con un elicottero. «Quand’è stata l’ultima volta che hai visto un elicottero in un film italiano?» gli chiede, e il dirigente risponde con un gesto malinconico, ben sapendo che cose simili, nel cinema italiano da “due camere e tinello”, non le faceva più nessuno. Ora però i tempi sono cambiati, le ambizioni sono cresciute grazie alla spinta dei vari Sollima, Rovere e Mainetti (con le rispettive case di produzione), e allora anche l’esistenza di un film come Comandante non deve affatto sorprendere.

La storia rientra negli annali della Marina Italiana, ma il regista Edoardo De Angelis ne fa un monito per i nostri tempi. Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino) è il capitano di corvetta del sopracitato Cappellini, sommergibile che parte da La Spezia nell’ottobre del 1940 per affondare le navi nemiche nell’Oceano Atlantico, durante la Seconda Guerra Mondiale. Una volta superato lo stretto di Gibilterra, Todaro e il suo equipaggio avvistano il piroscafo belga Kabalo, che sospettano trasporti materiale bellico per gli inglesi. Il Kabalo spara per primo, ma il sommergibile italiano riesce ad affondarlo dopo un breve scontro. I 36 superstiti della nave belga salgono sulle scialuppe di salvataggio, a cui Todaro fa consegnare viveri e coperte perché possano arrivare vivi a Madeira. In seguito, però, il capitano si rende conto che i naufraghi rischiano di non farcela, e decide di prenderli a bordo per condurli in salvo a Vila Do Porto. «Il ferro lo affondiamo» dice ai suoi uomini. «Ma l’uomo… l’uomo lo salviamo.»

Cosa conta di più, la legge del mare o quella degli uomini? Chiunque salvi i migranti nel Mediterraneo conosce bene la risposta, e lo stesso discorso vale per Todaro, le cui azioni furono criticate – tra gli altri – dall’ammiraglio nazista Karl Dönitz. Ma vertici militari e capi di governo rappresentano una legge ondivaga, parziale e fallibile, mentre la legge del mare è universale: nessuno dev’essere lasciato indietro, indipendentemente dalla sua condizione o nazionalità. Comandante stabilisce un parallelo con il nostro presente già dall’epigrafe iniziale, e le parole stesse di Todaro suonano come un’ammonizione contro chi si rifiuta di agire. Ben lungi dall’essere una strumentalizzazione, questo dialogo fra passato e presente dimostra la ricorsività della Storia nelle scelte degli uomini, tanto nel coraggio quanto nell’ottusità.

Certo, De Angelis non dimentica di avere fra le mani un film storico e bellico. Ancora più che in altre opere di ambientazione sottomarina, si nota la volontà di far coincidere il punto di vista della macchina da presa con quello dell’equipaggio. Raramente, infatti, vediamo l’azione dall’esterno: una scelta che serve a mascherare i limiti della produzione, ma anche a restituire la claustrofobia e l’incertezza della vita nel sommergibile. Il Cappellini diviene così la sintesi di un intero paese, un microcosmo dove l’Italia – “bordello meraviglioso e putrido”, come dice Todaro – si può guardare allo specchio. Vi convivono lingue diverse, accenti diversi e culture talvolta contraddittorie, che però trovano un accordo in quei cliché tanto amati all’estero (la cucina, il canto, il mandolino), emblemi di una convivialità spesso salvifica. Perché alla fine, più ancora del cameratismo machista, a unire l’equipaggio del Cappellini è l’atto di mangiare o cantare insieme.

Anche per questo, Comandante moltiplica le voci per offrire diverse prospettive sul conflitto (l’infermiera che riflette sulla partenza del suo amante, il sommozzatore che si sublima nel sacrificio), ma quella del capitano mantiene sempre una posizione centrale. Figura bizzarra, dotata di un alone mistico e di capacità precognitive, Todaro ragiona con piglio forse troppo letterario, e in tal senso si nota la mano di Sandro Veronesi in sceneggiatura. Il suo fascino è però indubbio, e altrettanto palese è il tentativo di smarcarlo dal regime: «Sono un uomo di mare!» risponde a chi lo accusa di essere un fascista, dando corpo a quella disgiunzione ipocrita fra pubblico e privato che caratterizzava gran parte della società italiana durante il ventennio di Mussolini. De Angelis vede in lui l’eterno contrasto tra i valori universali e quelli del potere costituito, tra il buon senso e la politica. I momenti più riusciti sono proprio quelli che sottolineano tale conflitto, più che gli intermezzi contemplativi della prima parte, a tratti un po’ pretenziosi.

La verità è che non siamo abituati a veder rappresentato un certo orgoglio italiano senza patriottismi reazionari, eppure Comandante ci prova, e in buona parte il suo tentativo è riuscito. Ovviamente fa a pugni con i fatti concreti, e con i molti episodi atroci che costellano sia il passato sia il presente della nazione. Al contempo, però, ci ricorda che possiamo essere meglio di così, e che la nostra civiltà bastarda non è fatta per respingere chi chiede aiuto; se mai, è fatta per accogliere. Troppo spesso tendiamo a dimenticarcelo.