In effetti, anziché gravarlo di un’enorme responsabilità, il flop di The Flash e soprattutto le dimensioni di quel gigantesco buco (nell’acqua, nel multiverso DC, nei conti Warner poi rimessi in sesto per sua fortuna da una certa bambola bionda) hanno sostanzialmente liberato Blue Beetle di un peso. Se non ha portato a casa la pagnotta un film molto atteso, con uno dei Batman più amati di sempre come guest star e un protagonista chaotic evil celebre quanto famigerato, in che modo poteva riuscirci – hanno cominciato a pensare un po’ tutti – un film su un eroe sconosciuto ai più, pensato originariamente per lo streaming e, Sarandon a parte, senza grandi star? Nell’unico periodo della storia recente del cinema in cui gli attori non possono promuovere i loro lavori, per giunta coincidente con una sensazione comune di grande stanca da film sui supertipi, a causa delle ciambelle senza buco DC e dell’esaltazione collettiva per l’MCU diluita fino al punto di farne brodino da troppe serie TV senza mordente? Ed ecco allora che Blue Beetle arriva senza riflettori e batsegnali puntati addosso: a fari spenti nella notte, per vedere se poi è tanto difficile riuscire.
E se l’approccio è questo, se – come ha fatto ieri sera chi vi scrive in un sonnacchioso cinema di metà agosto – si lascia a casa ogni aspettativa e si vanno a vedere due ore di un film di puro intrattenimento, alla fine quelle due ore scorrono via senza inghippi, tra qualche sorriso, un discreto numero di vabbè, almeno un paio di cosucce divertenti, un momento da lacrimuccia. Facciamo a capirci: Blue Beetle non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo alla formula, vista e letta mille volte, del giovane eroe nuovo del mestiere, che da impacciato Peter Parker e campione degli atterraggi maldestri stile Ralph Supermaxieroe deve diventare in fretta e furia il beniamino in costume in grado di salvare tutto e tutti.
Blue Beetle riesce ad essere al contempo un film in stile action anni 80/primi 90 e attuale, perché da un lato strizza l’occhio all’estetica idealizzata degli Ottanta (con tutte quelle lucine blu e viola, a partire dal logo e giù fino alla tecnologia dei cattivi, che fanno tanto Twitch) e presenta un tipo di storia in cui chiunque può calarsi in tempo zero, dall’altro si gioca la suddetta formula in un contesto ben preciso. Non dice nulla di nuovo, ma quello che dice lo dice con una voce diversa.
Tra una scazzottata, una battuta e l’altra, Blue Beetle accenna infatti al problema della gentrificazione, che sta devastando il tessuto sociale e la vita di milioni di persone in città vere, come le metropoli californiane, esattamente come avviene qui nelle periferie dell’immaginaria Palmera City. Il nuovo Blue Beetle, Jaime Reyes, è un eroe latinoamericano, ed è in quel tipo di cultura che il film affonda le sue radici, sposando innanzitutto la lezione numero uno di quel gran gentleman di Dominic Toretto.
Viene ripetuto più e più volte il concetto di “familia”, di nucleo familiare che cerca di proteggerti dalla violenza e dalle storture del mondo esterno: la formazione a testuggine dei sentimenti. E in questo i Reyes, con la loro nonna sprint e lo zio strambo (un improbabile genio dell’elettronica che sembra DJ Angelo), non sono poi troppo diversi da molte famiglie italiane. Tutto ciò, oltre a mostrare il peso diverso che questi rapporti hanno nella cultura dei latinoamericani, serve anche a ricordare le difficoltà che le loro generazioni precedenti hanno vissuto, e a dare a Blue Beetle un po’ di cuore. In una scena decisamente commovente, anche tanto: prevederne l’arrivo non è difficile, ma con le giuste condizioni d’animo è di quelle che per qualche secondo ti mettono sotto, occhio.
Non è un caso che il regista del film sia portoricano (Ángel Manuel Soto) e che quasi tutto il cast abbia origini mesoamericane. E non lo è neanche la scena di una famiglia latina inerme circondata dai militari, che porta alla mente tante immagini simili e dolorosamente vere arrivateci in passato dalla terra delle libertà, degli hamburger, dei muri e dei cittadini di serie B e C di cui non ci si prende neanche la briga di ricordare il cognome.
Ma al di là dei significati che si trovano nel film appena sotto la superficie, e dell’empatia che la pellicola cerca di instaurare con la famiglia Reyes dandole grande spazio (risultati così così: la sorella è insopportabile, per dire), di primo impatto Blue Beetle sembra esattamente quello che vuole essere: un action movie per un pubblico giovane. Interessato o meno a tutti gli altri super-eroi: è lo stesso.
Tanto che non solo mette nella tutina aliena dell’eroe la star di Cobra Kai, il brillante e simpatico Xolo Maridueña, ma in fondo da quella serie riprende anche il mix di contenuti. Battute, gag più o meno riuscite, momenti un po’ cringe, gestualità teatrale degli interpreti, ma anche alcuni momenti toccanti, dei rimandi al passato (in questo caso, anziché ai vecchi film di Daniel LaRusso, al precedente Blue Beetle, Ted Kord; c’è anche una piacevole citazione kyrbiana) e la voglia di vedere i cattivi presi a calci in c*lo. Quando le gomme da masticare sono finite, avrebbe detto il grande Roddy Piper.
Blue Beetle è un film che a un pubblico giovane può piacere anche di più per un discorso di immedesimazione, oltre che per alcune soluzioni visive in stile intrattenimento giapponese a cui strizza l’occhio (lo spadone come quello di Gatsu o Cloud Strife), e che non si porta dietro il solito bagaglio di continuity, universi condivisi, multiversi, sconti 3X2 alla fiera del mantello. A parte un paio di battute in cui si citano degli eroi DC (come si sarebbe potuto fare benissimo anche in qualsiasi altro film, parlando dei loro fumetti), non ci sono collegamenti con le pellicole DC precedenti. Non devi sapere niente per godertelo: vai lì e lo guardi.
E magari, nella fase di stanca eccetera eccetera di cui sopra, quando tutti hanno cominciato anche comprensibilmente a sbuffare davanti a maschere e tipi volanti, questo concetto così affascinante e old school di un film di cui ti interessa il film e non solo una scenetta di cinque secondi dopo aver letto i nomi di tutti gli elettricisti, i falegnami e i parrucchieri sul set, è anche la cosa migliore. Per avere un nuovo Spider-Man o Iron Man, provare a raccontare un nuovo Spider-Man o Iron Man. Non un nuovo tizio calato in un quadro più grande già rattoppatissimo.
Nota di merito per una scatenata Susan Sarandon, che veste i panni della vera villain del film con una frenesia e un’avidità sfrenata che fanno venire in mente il Gene Hackman del primo Superman. Visto che in giro ci sono sempre meno villanzoni amanti del viola e cattivi fino al midollo, e per contro abbondano gli incompresi in cerca di una seconda possibilità, rivedere una genuina canaglia ogni tanto fa piacere, ecco.