Buongiorno, signor Recchioni. La sua missione, se dovesse accettarla, riguarda il racconto del franchise Mission: Impossible. Le origini, lo sviluppo, il successo e un’analisi dell’ultimo film della serie, il settimo: Dead Reckoning. Come sempre, se lei uno della sua squadra venisse catturato o ucciso, ScreenWeek negherà di essere a conoscenza dell’operazione. Questo messaggio si autodistruggerà tra cinque secondi…
È mai capitato che un agente dell’IMF (la Impossible Mission Force) rifiutasse una missione?
Me lo devi dire tu, sei tu quello che mi racconta le cose, mica io.
Nei film, sicuramente no. Anche se l’ipotesi viene ventilata in uno degli ultimi capitoli della serie cinematografica (Fallout). Purtroppo non ho visto tutti gli episodi delle serie televisive…
Sono più di una?
Due a dire il vero. La prima, di centosettantuno, divisi in sette stagioni, va in onda dal 1966 al 1973. La serie è creata da Bruce Geller, prima per la Desilu Production (quelli che stavano dietro a un successo straordinario come I Love Lucy) che poi diventa parte della Paramount. Inizialmente, lo show è in bianco e nero e, solo successivamente, passa al colore. Nel 1988, prende avvio un revival, che dura due stagioni (dal 1988 al 1990) per la ABC. Poi, nel 1996, arriva il primo film con Tom Cruise.
Che aveva di così straordinario la serie originale per durare così tanto e per essere poi ripresa più volte?
Era una commistione piuttosto originale di vari generi, con una struttura brillante e alcuni momenti topici molto incisivi. Oltre, naturalmente, al suo azzeccatissimo tema musicale. Devi capire che, nella seconda metà degli anni sessanta, il mondo è in piena bondmania e gli Stati Uniti sono alla disperata ricerca di un qualcosa che possa competere con la spia inglese creata da Ian Fleming. La televisione americana ci arriva in fretta e, nel settembre del 1966, debuttano due serie a tema spionistico: il 17 settembre, sulla ABC, Mission: Impossible e il 22 settembre, sulla NBC, Man from U.N.C.L.E. (Operazione U.N.C.L.E. da noi). Le due serie sono entrambe un enorme successo ma, pur partendo da uno spunto comune, lo declinano alla loro maniera. Se Operazione: U.N.C.L.E. va direttamente alla fonte, coinvolgendo Fleming nella creazione della serie e dando al tutto un taglio molto internazionale e fantasioso, Mission: Impossible è più concreta e, tutto sommato, realistica, più squisitamente americana (anche come ambientazioni) e, soprattutto, gode di un’idea piuttosto nuova…
Che sarebbe?
In Mission: Impossible esiste un cast ristretto di personaggi fissi ma, in ogni puntata, i protagonisti scelgono alcuni di specialisti che li affiancheranno, a seconda delle necessità della missione impossibile che devono svolgere. Questa soluzione trasforma Mission: Impossible più che in una serie di spionaggio in un heist movie televisivo…
Che significa?
Hai presente quei film dove un protagonista deve fare una qualche rapina o furto e, nella prima parte del film, assembla la squadra di criminali specializzati, ognuno con la sua funzione e il suo incarico specifico?
Tipo Ocean’s Eleven?
Precisamente. Ma anche I soliti ignoti di Monicelli se vogliamo (che è proprio il papà del genere, poi codificato e reso popolare a livello mondiale dagli americani). Comunque sia, la grande idea di Geller, il creatore di Mission: Impossible, è proprio questa: fare non tanto una serie spionistica ma un heist movie, dove i protagonisti sono però dei tutori della legge e dell’ordine, che lavorano per salvare il mondo, e non dei criminali.
Quindi, Mission: Impossible è figlio de I soliti ignoti?
Al cento per cento. Comunque, la struttura pensata da Geller, oltre che originale per il contesto e la declinazione, ha anche altri pregi: dona una grande varietà alle storie, a ogni puntata crea qualche nuovo personaggio da poter utilizzare nuovamente, nel caso il pubblico lo apprezzi, e permette l’impiego di un gran numero di guest star, attori di lusso, magari provenienti dal cinema, che partecipano volentieri a un episodio o due dello show televisivo.
È questo il segreto del suo successo?
Anche, ma non solo: la serie ha anche altri meriti, come un bel cast, storie ben congegnate, dei titoli di testa iconici e accattivanti (una mano che, con un fiammifero, da fuoco a una miccia che fa poi esplodere il titolo) e il già citato tema musicale di Lalo Schifrin, semplicemente straordinario. E poi, la serie ha la straordinaria capacità di adattarsi ai tempi e reiventarsi.
In che maniera?
Per esempio, attorno alla quinta stagione della serie originale, con l’uscita di scena di Geller e l’arrivo di Bruce Lansbury alla produzione, la serie si apre a scenari molto più internazionali rispetto alla lotta al crimine e alle infiltrazioni sovietiche sul territorio statunitense, avvicinandosi maggiormente a quanto si vedeva in Man from U.N.C.L.E. e nei film di James Bond. Il mondo è diventato più piccolo, il pubblico sogna viaggi in destinazioni esotiche e Mission: Impossible gli porta quel sogno dentro casa. Le cose vanno bene fino agli inizi degli anni settanta, poi i tempi cambiano e cambiano i sentimenti del pubblico verso il governo americano e il suoi rappresentanti: con la guerra del Vietnam e il Watergate, gli agenti dell’IMF non sembrano più tanto eroici. La serie viene cancellata.
Ma ritorna negli ottanta, giusto?
Sì, un breve revival, con parte del cast originale, che cerca di rimodulare il franchise (che ancora non è propriamente tale) sui gusti del più edonistico dei decenni.
Funziona?
Non tanto e non bene come altre serie del passato che negli anni ottanta vengono ripescate e rimesse a lucido. Il revival di Mission: Impossible sopravvive per due stagioni e poi finisce nel dimenticatoio.
Ma la serie non muore, esatto?
No, la sua idea di base è troppo buona per lasciarla andare. Lo pensa la Paramount e lo pensa, soprattutto, Tom Cruise, che ne è un fan sin da ragazzino e che sceglie proprio il rilancio del franchise come progetto iniziale della casa di produzione che ha fondato con Paula Wagner (che, all’epoca, era semplicemente la sua agente). E sempre a Cruise si deve la regia di Brian De Palma e i settanta milioni di budget ottenuti per realizzare un film che deve essere, nella sua idea “qualcosa di sorprendente, esplosivo, mai visto prima”.
E lo è?
Eccome. Nonostante uno script piuttosto problematico e rimaneggiato da mille mani diverse, la pellicola si caratterizza per alcune spettacolari scene di azione (che oggi, a rivederle, sono invecchiate malino) e per una straordinaria e iconica idea-cinema come la scena di Cruise appeso ai cavi, nella stanza del computer. Per il resto, il film è pieno di piccole chicche visive tipiche del regista e sorretto dal tema musicale delle serie, capace di resuscitare anche i morti. Il film esce nel 1996, alla critica piace, al botteghino va benissimo e viene immediatamente messo in cantiere il secondo capitolo.
Quello con le colombe e i ralenti…
Sì, quello diretto da John Woo, che all’epoca è la grande novità di Hollywood. Il regista di Hong Kong, dopo alcuni film eccezionali diretti nella sua patria, arriva negli USA e dirige prima un piccolo film con Van Damme, Hard Target (Senza Tregua da noi) che viene sorprendentemente apprezzato da tutti, poi Broken Arrow (dove conosce John Travolta e, quindi, entra in contatto con Scientology, cosa da non sottovalutare per il successivo collegamento con Cruise) e poi Face/Off (sempre con Travolta, assieme a Nic Cage). Ogni film di Woo va meglio del precedente e il suo stile influenza tutto il genere action del periodo. La scelta di prenderlo come regista del secondo capitolo di Mission: Impossible sembra ovvia.
Il film è bello?
Diciamo che è il canto del cigno di un certo modo di fare cinema per John Woo. Dentro ci sono tutti gli stilemi che lo hanno reso famoso, ma ancora più esagerati e sopra le righe del solito. A tratti sembra quasi una auto-parodia. Comunque sia, il pubblico non se ne accorge e anche questo film va benissimo, cementando la reputazione di Tom Cruise come star dell’action. È proprio in questo film che l’attore inizia a sottolineare in maniera decisa come sia proprio lui a realizzare i suoi stunt, specie quelli più spettacolari, come la scena della scalata della montagna e lo stoppie (un manovra motociclistica in cui si punta la ruota anteriore e si alza quella posteriore) con giravolta, eseguito da Cruise in persona, in sella a una meravigliosa Triumph Speed Triple.
Insomma, a Cruise non lo ferma nessuno!
Sbagliato. Nel 2006, durante la fase di lancio di Mission: Impossible III (una pellicola funestata da molti problemi produttivi, con vari registi e attori legati al progetto che poi hanno preferito farsi da parte e con J.J. Abrams, esordiente totale per il cinema, dietro la macchina da presa) la Paramount recide il contratto con Cruise, adducendo come ragione “il cattivo comportamento” dell’attore.
Oddio, che è successo?
Secondo alcuni, la rottura dipese dal noto (e strano, e inquietante) comportamento che Cruise tenne nel talk show di Oprah Winfrey, nel 2005. Secondo altri, la questione riguardava il ruolo sempre più preminente che Cruise aveva assunto nell’organizzazione di Scientology. Infine ci sono quelli che pensano, semplicemente, che si trattasse di una questione di soldi e che la Paramount non fosse più disponibile ad accettare le pretese economiche dell’attore, specie alla luce dei problemi produttivi avuti con Mission: Impossible III. Fatto sta che il film uscì con un Cruise fuori dalla Paramount e poco coinvolto nella promozione.
Andò male?
No, nonostante tutto, andò bene. Pur essendo il capitolo meno ispirato della serie.
Quindi, la Paramount ci ripensò?
Per niente. Anzi, mise Mission: Impossible nel cassetto e se ne dimenticò e Cruise, per qualche anno, dovette lavorare duramente per ricostruirsi una posizione. In questo periodo girò varie pellicole che produsse con un forte investimento economico personale e, un pezzettino alla volta, ricreò la sua immagine. Cosa importante, è proprio in questa fase che iniziò a collaborare con Christopher McQuarrie (che scrisse per lui Operazione Valichiria) e che, negli anni, divenne il suo sceneggiatore e regista d’elezione. Comunque sia, la Paramount e Cruise si riavvicinarono nella maniera più improbabile…
Cioè?
Grazie al cameo che l’attore fece in Tropic Thunder di Ben Stiller, dove Cruise interpretava Les Grossman, un disgustoso (e spassoso) produttore cinematografico. La performance di Cruise fece impazzire il mondo e divenne chiaro a tutti che il pubblico amava ancora l’attore. La Paramount tornò quindi a bussare alla sua porta e, pur dettando qualche condizione (la presenza nel film di Jeremy Renner come futuro sostituto di Cruise), mise in cantiere il quarto capitolo della serie. Mission: Impossible – Protocollo Fantasma, diretto da Brad Bird (il regista Pixar de Gli Incredibili e Ratatouille). Il film andò straordinariamente bene e di sostituire Cruise non se ne parlò più, anche perché l’attore fece in modo di diventare un elemento imprescindibile per la serie…
In che maniera?
Facendo di Mission: Impossible un’opera metatestuale.
Non sto capendo…
In sostanza, costruendo i film attorno alle scene più spettacolari che poi avrebbe portato a schermo di persona, caricandosi tutti i rischi fisici connessi. In questa maniera, Cruise ha cambiato il senso stesso del franchise perché, pellicola dopo pellicola, è diventato sempre più chiaro a tutti che la missione impossibile non è più quella raccontata dal film, ma la realizzazione del film stesso.
Mi stai dicendo che i film di Mission: Impossible, dal quarto capitolo in poi, sono costruiti attorno agli stunt che Cruise eseguirà e non in relazione alla storia che si vuole raccontare?
Precisamente. È come se fossero una gigantesca puntata di Jackass da duecento e passa milioni di dollari, diretta da un regista bravissimo e con una storia concepita per cucire assieme vari momenti in cui una star esegue qualche assurdità e rischia di farsi male sul serio. O morire.
Ma questo non è un male per la qualità dei film?
Sorprendentemente, no. Il film di Brad Bird funziona molto bene e poi, con l’arrivo di McQuarrie (che si mette alla scrittura e alla regia, dal quinto capitolo in poi) tutto fila ancora meglio e raggiunge vette di eccellenza, tanto è vero che Rogue Nation e Fallout sono i due migliori capitoli di tutta la serie e quelli che meglio sono accolti dal pubblico e dalla critica. E ora arriva la prima parte di Dead Reckoning, sempre scritto e diretto da McQuarrie…
Facciamola rapida, com’è?
Fino a metà del film, cioè alla conclusione della scena di Venezia, semplicemente perfetto. Un film incredibilmente divertente ed emozionante, che si apre con una serie di scene fantasticamente ingegnose e ben concepite e che, in un crescendo inarrestabile, ci porta a un climax emotivo assoluto versò la metà della pellicola. Poi si siede leggermente, si incarta in qualche assurdità narrativa (per esempio: perché Ethan deve fare tutta quella roba per salire sul treno quando a Paris basta saltare giù da un ponticello?) e perde leggermente di fuoco, per poi ritrovarsi in una serie di momenti d’azione assolutamente spettacolari.
Il salto con la moto e il volo in parapendio, giusto?
Guarda, per assurdo, quello non è il picco emotivo delle scene action del film. C’è persino di meglio. E non perché Cruise faccia degli stunt più spettacolari ma perché McQuarrie è davvero bravo a costruire la tensione dell’azione, e pure dove mette in scena un qualcosa di visto mille volte (un treno che sta per precipitare in un dirupo e gli eroi che devono “scalarlo” per mettersi in salvo), lo fa con una tale consapevolezza, un tale talento e un tale mestiere, da farti sembrare tutta la sequenza nuova. A un certo punto, per assurdo, torni a preoccuparti dell’incolumità di Hunt e non solo di quella di Cruise.
Scusa se ti faccio una domanda che ti sembrerà sciocca visto quello che mi hai detto fino a questo momento, ma la storia com’è?
Ecco la vera sorpresa: è buona. Anzi, è ottima. Perché il cattivo (e l’idea che c’è dietro) funziona benissimo e crea un senso di vera minaccia e angoscia. Il film è squisitamente bondiano (con tanto di cattivo orientale, strambo, silente, misterioso e letale, in stile Oddjob) ma riesce meglio di tutti gli ultimi Bond a creare un clima di cospirazione e minaccia globale, facendoci davvero temere l’entità malvagia di turno. Funziona anche molto bene sul piano drammatico e tutti i personaggi tipici della serie hanno il loro spazio e la loro caratterizzazione (torna anche Eugene Kittridge, che non si vedeva dal primo capitolo cinematografico). Sul serio, oltre gli stunt c’è di più: è un film fantastico, con una storia alla sua altezza.
Non ha neanche un difetto?
Uno sì, e pure bello grosso…
Sarebbe?
Non finisce. È solamente la prima parte della storia…
E quando arriverà la seconda?
Nel 2024. Si spera. Disastri mondiali permettendo.