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Oppenheimer, la recensione del film di Christopher Nolan

Pubblicato il 21 luglio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Quando Robert Oppenheimer (Cillian Murphy) si confronta con Isidor Rabi (David Krumholtz) sul nascente Progetto Manhattan, il futuro premio Nobel – ebreo come lui, e ben consapevole delle persecuzioni naziste in Europa – esprime i suoi dubbi con una frase emblematica: «Non voglio che tre secoli di fisica culminino in un’arma di distruzione di massa». Ecco, l’ideale filo rosso che attraversa il film di Christopher Nolan è condensabile in quelle parole, da cui affiora il più grande conflitto morale della Storia umana. È anche una perdita dell’innocenza, se vogliamo: dopo il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, lo stesso Oppenheimer sostiene infatti che i fisici “hanno conosciuto il peccato”. È l’alba di un mondo nuovo, e lui stesso – uno dei fautori di questa svolta epocale – è tra i pochi a riconoscerlo.

Viene da chiedersi perché Nolan abbia voluto raccontare la sua storia, ma il primo indizio si trova già nella struttura del film. Il regista londinese, ingegnere inverso del cinema, ama ricostruire ciò che è parcellizzato, capire come funzionano i meccanismi nascosti del mondo: non a caso, ricorre a quella scomposizione temporale che caratterizzava i suoi primi lavori, e che gli consente di proporre al fruitore una realtà caotica, labirintica, cui però lui stesso mette gradualmente ordine. Nel rievocare i punti salienti della vita di Oppenheimer – basandosi sulla biografia American Prometheus di Kai Bird e Martin J. SherwinNolan frammenta la sceneggiatura in due tronconi principali, ovvero il punto di vista soggettivo del protagonista (a colori) alternato a un racconto più oggettivo, da narratore onnisciente (in bianco e nero). In tal modo, il film sfrutta collegamenti narrativi ed emotivi per giustificare l’oscillazione tra passato, presente e futuro: seguiamo la costruzione della prima bomba atomica a Los Alamo, ma vediamo anche l’inchiesta cui Oppenheimer fu sottoposto nel 1954 per le sue vecchie simpatie comuniste, e lo scontro con il capo della Commissione per l’energia atomica Lewis Strauss (Robert Downey Jr.).

Con un simile intreccio di scienza e politica, Oppenheimer è il primo film di Nolan senza elementi d’azione e/o fantascientifici, ma anche quello in cui dimostra di saper trovare una rotta alternativa per il suo spiccato razionalismo. L’azione qui si risolve tutta nei dialoghi, articolati e fittissimi, al punto che seguire ogni aspetto dell’inchiesta diviene un compito arduo: è l’anello più debole di una sceneggiatura impegnativa, che forse aveva bisogno di qualche pausa per far rifiatare il pubblico. Eppure, è anche capace di risollevarsi nell’ultimo atto, quando il regista inglese dà prova di saper costruire la tensione persino in uno scontro verbale, e l’epilogo attribuisce un senso definitivo alla parabola del grande scienziato.

Anche stavolta, come da tradizione nolaniana, forma e contenuto coincidono. La narrazione soggettiva, oltre a rivelare il contenuto di un fondamentale dialogo con Einstein in una scena chiave, giustifica le scelte più controverse del regista, come quella di non mostrare i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki né le conseguenze a lungo termine sui sopravvissuti. Se ne parla in molti frangenti, ma Oppenheimer abbassa gli occhi: non riesce a guardare gli effetti dell’arma che ha contribuito a creare, non ne sopporta la visione. Ipocrita, certo, ma anche indicativo di un senso di colpa che lo divora dall’interno. La ragione per cui non le vediamo nemmeno noi, è perché il film ci cala nel suo punto di vista, e il troncone soggettivo – quello a colori – è preponderante. Allo stesso tempo, è chiaro che Nolan s’impegna a non spettacolarizzare, perché consapevole di quanto sarebbe problematico. Lo stesso Trinity Test, prima esplosione di un ordigno atomico nella Storia, è messo in scena lavorando sulla suspense più che sulla suggestione visiva: la scelta di rievocarlo senza l’ausilio della CGI costringe l’autore a operare entro confini molto netti, e l’effetto è quasi anticlimatico, d’altri tempi. La strenua coerenza con sé stesso diviene talvolta un limite, ma è quella che gli permette di realizzare un blockbuster anomalo e adulto, in totale controtendenza rispetto alla Hollywood contemporanea.

Si parlava di rotte alternative, e infatti non manca un accenno alle pulsioni carnali, storicamente assenti dal suo cinema. La relazione clandestina con la militante comunista Jean Tatlock (Florence Pugh) perseguita Oppenheimer a tal punto da influenzare la sua percezione della realtà, dando luogo a quella che forse è la scena più rischiosa e audace in tutta la filmografia di Nolan. Quando fa compenetrare realtà e fantasia, il cineasta non perde il suo sguardo lucido e calcolatore: persino le visioni di morte, quando il protagonista immagina le conseguenze della bomba, hanno ben poco di allucinatorio. Ma è proprio in questa concretezza che il film trova la sua credibilità. Non cerca scappatoie, né ci distrae con fuochi d’artificio: è un rarissimo caso di blockbuster che non appartiene al cinema delle attrazioni. Al contrario, si gioca tutto sui confronti d’opinione, sulle decisioni critiche e sui dilemmi etici che ne derivano.

Il fatto che Nolan confermi la predilezione per il 70mm in un film così dialogato e intimista, è un’ulteriore prova del suo impegno verso la fruizione cinematografica, per quanto le sale abilitate scarseggino. Lui però continua a crederci, ed è un bene: nelle condizioni giuste, Oppenheimer si rivela davvero un’esperienza speciale. In fondo, lo schermo più grande possibile consente di immergersi nella straordinaria interpretazione di Cillian Murphy, capace di trasmettere con lo sguardo e con il corpo tutto quello che le parole non dicono; ma grandioso è anche il suo antagonista, Robert Downey Jr., emblema di un potere che vuole addomesticare ciò che non capisce. Oppenheimer finisce per ritrovarsi sul versante opposto di quelle stesse istituzioni con cui collabora, poiché nessun altro riesce a scorgere il cambiamento in atto: abituato a vedere mondi occulti grazie alla fisica quantistica, soltanto lui coglie la nuova fase in cui è entrato il nostro, di mondo.

I brevi intermezzi visionari aprono uno spiraglio sulla sua mente, come le premonizioni di un rischio che accompagnerà la specie umana in eterno, a meno che un’altra rivoluzione non intervenga nella scienza e nelle coscienze. D’altra parte, che si tratti dei sogni o dello spazio profondo, a Nolan gli esploratori dell’ignoto piacciono da matti: sono sempre loro ad avvistare i primi bagliori del futuro, ponendosi come avanguardia dell’umanità. In questo caso, però, il dialogo con la Storia impone al regista uno sguardo critico, che abbraccia il senso di colpa americano tramite il suo rappresentante più significativo. La hybris degli uomini non ha rimedio, e da certe scoperte non si può tornare indietro: una consapevolezza che implode dentro il cuore di Oppenheimer, obbligandolo ad accogliere la sua stessa disillusione, a convivere con i suoi spettri. E, giunti alla fine, ci rendiamo conto che li abbiamo ereditati anche noi.