Mission: Impossible ritorna con Ethan Hunt, con la sua ennesima avventura – Mission: Impossible – Dead Reckoning: Parte 1 – in una saga che pare non voler più sentire ragioni, non si ferma di fronte al tempo che passa, al pubblico che cambia, ad algoritmi, intelligenze artificiali, mode o le rughe del suo protagonista. Ma guardare a questo franchise in fondo, significa ammirare un concentrato di innovazione e di classicità uniche nel suo genere, in grado di andare oltre ogni cambiamento e rimanere alla base di ciò che il pubblico vuole da una spy action story.
Chissà cosa direbbe oggi Bruce Geller a vedere cosa è nato dalla sua idea, da quella serie televisiva che fu capace di raccogliere un grande successo negli anni ‘70, di porsi come alternativa al mondo che Ian Fleming aveva reso una sine qua non per il genere. Poi ecco che arriva Brian De Palma, nel 1996 viene chiamato a sviluppare l’idea di una divisione specifica di grandi agenti segreti, della Impossible Mission Force che Tom Cruise aveva deciso di fare suo cavallo di battaglia. 80 milioni di budget e una confezione in cui il meglio dell’action americano si incrociava con le atmosfere più vicine al noir, al thriller vecchio stile, quello che aveva prodotto perle come Il Giorno dello Sciacallo, Professione Assassino o Killer Elite.
Forse Mission: Impossible arrivò al momento giusto, forse fu questa la realtà. La saga di Bond era appena ripartita con GoldenEye dopo ben 6 anni di pausa, il mondo post Muro di Berlino non voleva più saperne di URSS o simili, ma lo spionaggio restava un genere attraente, se trattato nel modo giusto. De Palma trovò quel modo ridando centralità alla fisicità, all’espressività, con una regia che seppe destreggiarsi in modo perfetto mentre cesellava alcune sequenze semplicemente geniali, cambiando per sempre il genere. Mission: Impossible, il suo Ethan Hunt, infatti, a differenza di un Bond, avrebbero parlato dello spionaggio come reazione più che azione, introducendo una notevole dose di vulnerabilità in un personaggio, quello della spia, che la tradizione british aveva reso glamour, elegante, vincente in quanto espressione della upper class. Lui invece, Ethan, era un tipo molto più moderno, era uno che si sporcava le mani, il volto, sempre con l’acqua alla gola e senza belle pupe e abiti eleganti addosso.
Ethan Hunt in quel primo film doveva trovare il responsabile della morte della sua squadra, discolparsi dall’accusa di essere una talpa e contemporaneamente sopravvivere. Gioco di specchi in cui la verità è vicina eppure distante, ci dona un concentrato d’azione in cui il corpo di Cruise è un sacco da pugile costretto a sopravvivere ad ogni tipo di avversità. La scena del treno del primo film diventa mitologia ma è poi subito superata da quelle successive, da Tom Cruise che diventa stunt di sé stesso e abbatte la barriera tra personaggio e interprete. Virus, mercenari, colleghi traditori, organizzazioni criminali internazionali, talpe, ordigni atomici, Ethan Hunt affronta di tutto, lo fa con una squadra fedelissima che lo rende qualcosa di diverso dall’eroe solitario, si lega sentimentalmente a donne che per lui non sono oggetti ma qualcosa che vorrebbe stabilmente nella sua vita. Altro elemento che lo allontana da Bond, a cui però è connesso per il suo rappresentare un’eccellenza, per la solitudine che deve abbracciare giocoforza sempre, per un mondo dove si aggira armato di gadget che sono esattamente parenti stretti di quelli che 007 impugnava da decenni. Le mega-organizzazioni, gli avversari mastodontici, malvagi e narcisisti, non sono diversi da quelli che fin dai tempi di Sean Connery abitano il mondo dell’agente di Sua Maestà. Non c’è la Spectre, ma il Sindacato, poi gli Apostoli, c’è comunque un ordine mondiale da preservare, da mantenere, una divisione, la IMF, che è spesso sull’orlo del baratro, è scomoda a chi invece trama con il nemico. Il mondo di Hunt è un mondo post-moderno quanto quello di Bond è invece un mondo connesso alla Guerra Fredda.
James Bond fa tutto o quasi in modo facile, Hunt invece si deve dare da fare. Di base la sua è una lotta anche contro gli elementi della natura. Acqua, aria, fuoco, terra, tutto gli è contro, quasi come una sorta di percorso mitologico. Ma soprattutto, è molto più atletico, più agguerrito, un ninja rispetto a Bond, pur rimanendo connesso ad un trasformismo che sovente lo vede appeso da un filo, con l’urgenza di entrare ed uscire da posti inaccessibili, evento che Bond raramente ha dovuto affrontare. Alto e basso sono il suo dominio, il suo percorso è di perenne caduta e ascesa, così come quello della sua divisione.
In questo, la saga di Mission: Impossible ha saputo non solo salvare in parte un genere, quello della superspia, che poi avrebbe avuto in Jason Bourne un altro alfiere del rinnovamento. Fateci caso, pur con le dovute differenze, Ethan e Jason si somigliano molto, perché entrambi sono frutto di un mondo torbido, privo di pietà e verità, sono stati costretti a dare fondo alla propria capacità di improvvisare, lì dove Bond spesso faceva uso della stessa sterminata onniscienza per ovviare a questo problema. Ethan Hunt ha superato quasi trent’anni di cinema, lo ha fatto perché non si è mai fissato con una determinata epoca e cultura, ma ha saputo accodarsi alla tecnologia del domani e al mondo senza un vero asse o centro politico ed economico. I nemici hanno più volti, non sono più nazioni ma privati, non più ideali in senso stretto, ma più sfumati, più adattabili come lo è lui, capace di usare nanotecnologie come di infilarsi in bunker subacquei. Ethan Hunt non è invincibile, lo sa, forse per questo non ha mai perso e ci piace.
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