Insidious: La porta rossa, recensione

Insidious: La porta rossa, recensione

Di Lorenzo Pedrazzi

Nell’inevitabile paragone con The Conjuring – altra creatura horror di James Wan – la saga di Insidious ha sempre tenuto un profilo più basso, rivelandosi però meno problematica e più originale rispetto alle avventure dei coniugi Warren. Insidious: La porta rossa chiude idealmente un cerchio: quinto capitolo della saga, è il primo vero sequel dai tempi di Insidious 2, dato che il terzo e il quarto film erano in realtà dei prequel. La cronologia può sembrare un po’ confusionaria, ma il capitolo in questione ripropone i protagonisti originali, mettendo ordine in un franchise che comunque non ha mai perso la sua coerenza interna.

Sono trascorsi dieci anni, e la famiglia Lambert non sta vivendo un bel momento: Renai (Rose Byrne) e Josh (Patrick Wilson) hanno divorziato, e la madre di quest’ultimo è appena morta. Dalton (Ty Simpkins) sta per partire per l’università, ma incolpa il padre di essere stato assente, e la comunicazione scarseggia. I due, però, sono profondamente connessi: entrambi sono infatti capaci di proiettarsi astralmente nell’Altrove, la dimensione oscura dove risiedono gli spiriti dei defunti, ma non possono ricordarselo perché l’ipnosi ha cancellato loro la memoria. Quando Dalton si trasferisce al college e fa amicizia con la compagna di stanza Chris (Sinclair Daniel), strane visioni cominciano a tormentare lui e il genitore, riportando in superficie gli orrori rimossi.

Il rimosso, in effetti, è proprio al centro della sceneggiatura di Scott Teems, a partire dal soggetto scritto in collaborazione con Leigh Whannell. Per ben due volte (da bambino e da adulto) i familiari di Josh hanno deciso di fargli dimenticare l’Altrove, e in entrambi i casi non è servito a niente: gli spettri del passato sono sempre tornati a perseguitarlo. In modo più o meno volontario, Insidious: La porta rossa sembra dirci che la beata ignoranza non ha nulla di salvifico, tutt’altro. Per superare i traumi è necessario compiere un accurato lavoro di elaborazione, poiché solo attraverso di esso – per quanto delicato e faticoso – sarà possibile superarli. Tale consapevolezza è il fulcro della storia, e riguarda sia Josh sia Dalton.

Caso abbastanza raro nell’horror contemporaneo, Insidious racconta la violenza come un retaggio paterno che gli uomini devono combattere in prima persona, trovando in loro stessi e negli affetti che li circondano la forza per opporsi. Non è affatto banale, se consideriamo la proverbiale idiosincrasia maschile per la psicoterapia: l’oblio dell’ipnosi è una soluzione ipocrita, utile soltanto a seppellire i problemi, ma Josh e Dalton capiscono la necessità di affrontarli. Ovviamente il processo si dipana in un’avventura sovrannaturale, ed è così che entrambi guadagnano un grado superiore di autocoscienza. A tal proposito, Teems e lo stesso Patrick Wilson – qui al suo esordio registico – sono bravi a mettere in scena le sfumature di durezza e imbarazzo che delineano i conflitti padre/figlio, evocando un’incomunicabilità piuttosto diffusa nei rapporti tra maschi.

Il limite, se mai, è la mancanza di equilibrio: il copione ci impiega davvero troppo per arrivare al punto, e talvolta si rimane spaesati. La sensazione è che, nonostante esistano ben quattro film precedenti, Teems voglia inserire troppi pregressi aggiuntivi per giustificare la nuova minaccia, con risultati un po’ caotici. In compenso, Wilson eredita il gusto per un’inquietudine sottile, che dà il meglio di sé in profondità di campo, e centra due o tre sequenze di notevole impatto (insieme a qualche buon spavento, seppur con i soliti jump scare della Blumhouse). Alla fine, se la ricostituzione del nucleo familiare è alquanto prevedibile, ciò che lascia il segno è il trionfo dell’amore maschile: non un’esibizione di machismo, ma un sentimento dolce e affettuoso, come dovrebbe essere.

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