Da quando Hollywood ne ha codificato la formula, i blockbuster hanno sempre attinto a un immaginario tendenzialmente maschile, quantomeno nella vecchia concezione binaria che suddivideva le narrazioni (o i giocattoli) a seconda del target. Non a caso, le saghe e i tentpole hollywoodiani sono quasi sempre prodotti d’azione, immersi in generi che – un tempo – si rivolgevano per lo più ai giovani maschi, come l’avventura, la fantascienza e i supereroi. Oggi tali confini non esistono più, ma è innegabile che l’origine sia quella. Così, se è vero che la stragrande maggioranza dei blockbuster procede ancora sulla medesima strada, Barbie di Greta Gerwig cerca un itinerario diverso, offrendosi come un’alternativa ai colossal dominanti.
Non è il primo film della regista con una major (lo stesso Piccole donne era targato Warner), ma è certamente il primo che la obbliga a misurarsi con grandi aspettative commerciali, frutto delle ambizioni cinematografiche della Mattel. Curiosamente, buona parte del discorso che circonda il film verte sull’immagine di Gerwig come autrice, al punto che persino la campagna promozionale ne ha approfittato: Barbie, in effetti, è l’impresa di una cineasta che cerca il più possibile di non compromettere la sua indipendenza creativa, ma allo stesso tempo deve accontentare un po’ tutti, tenendo insieme dei pezzi che per loro natura sarebbero incompatibili.
È chiaro che Gerwig non si identifica tanto nella Barbie “stereotipata” di Margot Robbie, quanto nella commovente umanità di Gloria, il personaggio di America Ferrera, che segue la protagonista nella ridente Barbie Land con la figlia Sasha (Ariana Greenblatt). Gloria esprime un disagio femminile generalizzato: nella nostra società, sulle donne gravano aspettative irrealizzabili che le esporranno sempre a delle critiche, qualunque cosa facciano. Di fatto, è la stessa situazione che vive la regista. Se assecondasse troppo le richieste di Warner e Mattel, sarebbe la solita “venduta”. Se guastasse del tutto il sistema, sarebbe egocentrica e inaffidabile. Insomma, non c’è da stupirsi che Gerwig abbia cercato di bilanciare tutte le esigenze tematiche e produttive del film, peraltro riuscendoci quasi sempre.
I suoi numi tutelari (Powell e Pressburger con Scarpette rosse, Jacques Demy con Les Parapluies de Cherbourg) sono riferimenti più impliciti che espliciti, la cui influenza traspare quantomeno dal design di Barbie Land: si può notare soprattutto nell’evidente artificiosità di quel mondo, ricostruito in studio per trasmettere l’idea di una realtà plasticosa e artefatta. Lo stesso discorso vale per l’uso espressivo dei colori, a dimostrazione di quanto il film sia concettualmente accurato. Il resto, però, è un classico percorso di scoperta e presa di coscienza, più legato alla Hollywood postmoderna che al cinema classico. Barbie vive una crisi esistenziale perché assorbe i malumori e le ansie della sua proprietaria, scoprendo nel mondo reale una società completamente opposta a quella di Barbie Land: dal matriarcato al patriarcato, in sostanza.
Nel mondo di Barbie, infatti, i Ken sono “solo Ken”, non hanno alcun ruolo né un lavoro, e nemmeno una casa. Vivono in funzione delle Barbie, esattamente come nei giocattoli, dove sono poco più che un accessorio. Barbie Land concretizza quindi l’utopia di una bambola che vorrebbe porsi come un modello positivo per le bambine (ovvero: Barbie è una donna adulta e indipendente che può diventare ciò che vuole), eppure ha ottenuto l’effetto opposto, favorendo il consumismo e imponendo standard fisici inverosimili. In fondo, il femminismo stesso ha rifiutato per decenni quell’ideale femminile, dominato da stereotipi considerati frivoli. I tempi però sono cambiati, e il femminismo mainstream si è riappropriato del rosa, riconoscendo nell’atteggiamento e nell’estetica femme una delle sue molte espressioni. Se quindi Barbie può ormai affermarsi come icona femminista, la sua influenza sul mondo non è stata però quella che si auspicavano Ruth Handler o il reparto marketing della Mattel, e il film si nutre proprio di tale conflitto.
Greta Gerwig e Noah Baumbach (qui co-sceneggiatore) problematizzano il ruolo della bambola nel nostro immaginario, senza risparmiarsi numerose frecciatine alla Mattel e al sistema economico in cui viviamo. È il capitalismo che critica sé stesso: un paradosso ben esemplificato dalla satira del film. In effetti, Barbie è davvero l’emblema di quel capitalismo liberale che garantisce la parola anche ai suoi detrattori, purché assicurino un profitto. La regista si trova quindi a lavorare in un ambiente delicatissimo, presa tra due fuochi incrociati: una multinazionale che punta al profitto, e una coscienza interiore che non scende a compromessi. La soluzione consiste nel mediare fra queste due spinte opposte. Gerwig mette in scena tutto quello che è lecito aspettarsi da un film di Barbie (le citazioni alla sua storia, i personaggi di contorno, ambienti e oggetti riconoscibili, il gusto camp), ma al contempo usa la narrazione popolare per trasmettere una visione critica del mondo. Non è scontato che una bambina o un’adolescente sia esposta ai valori del femminismo, ma quei discorsi possono raggiungere una platea molto più vasta grazie a un film del genere, e Gerwig lo sa. D’altra parte, siamo immersi in uno Zeitgeist che permette di fare cose un tempo inimmaginabili, come attaccare il patriarcato in un blockbuster multimilionario.
In tal senso, lo spassoso copione usa il mondo alla rovescia di Barbie Land per ricordarci che non si può sostituire una dittatura con un’altra, senza negare un po’ di simpatia anche per gli sventurati Ken. Ryan Gosling ruba effettivamente la scena, e dimostra di crederci tantissimo: vittima e poi carnefice di una società grottescamente classista, il suo Ken è frustrato, malinconico, buffo e sopra le righe, confuso dalla sua stessa mascolinità. Barbie è anche la storia della sua emancipazione, cui viene riservata una certa cura da Gerwig e Baumbach. Lo stesso non può dirsi per altri personaggi di contorno, introdotti come se avessero un arco narrativo da risolvere e poi dimenticati lungo la strada.
Le caratterizzazioni migliori sono quelle che rispecchiano i temi più cari all’autrice, come il conflitto tra madre e figlia memore di Lady Bird, o la comica miopia del presidente di Mattel (Will Ferrell), che insieme ad altri uomini incravattati pretende di sapere cosa desiderino le bambine. Dalla plastica alla carne, il film usa la bambola come tramite per dialogare col mondo reale, trovando così una giustificazione che va ben oltre i fini economici. Si tratta di proporre un’alternativa all’immaginario dominante dei blockbuster, e riappropriarsi del cinema (anche di quello più commerciale) come mezzo di espressione e intrattenimento, da sempre in mano a una sola metà del pianeta. Non riconoscerlo, o reagire infastiditi di fronte a un’operazione del genere, significa far parte del problema.