Cinema roberto recchioni Recensioni
Prima di entrare nel vivo della recensione di Barbie, il film scritto (assieme a Noah Baumbach) e diretto da Greta Celeste Gerwig, interpretato da Margot Robbie e Ryan Gosling e basato sulla bambola creata da Ruth Handler e Mattel nel 1959, credo che sia bene giustificare cosa Barbie NON è:
Mi rendo conto che l’affermazione possa apparire pleonastica, dato che Barbie è una bambola bionda e sorridente e i Transformers sono robot trasformabili e combattenti e che l’unica cosa che hanno in comune è la plastica e il fatto che siano giocattoli per un pubblico compreso tra e i tre e i novantanove anni ma, in realtà, c’è una differenza più profonda e sostanziale tra le pellicole: i film dei Transformers ci dicono che Autobot e Decepticon sono reali e raccontano le loro epiche vicende. Non sono film su una linea di giocattoli chiamati “Transformers” ma sui Transformers stessi, sulla loro storia, sul loro universo narrativo. Optimus Prime non sa di essere un giocattolo perché, nell’universo fittizio delle pellicole a lui dedicate, non lo è. Non esistono i giocattoli dei Transformers nel mondo dei Transformers. Il film di Barbie, invece, è un film sulla bambola, sul giocattolo vero e proprio, che sin dall’inizio sa di essere tale. Più o meno.
Per quanto il film di Greta Gerwig abbia qualche punto di contatto con la pellicola del 2014 scritta e diretta da Phil Lord e Christopher Miller (tra cui la presenza nel cast di Will Ferrell), sono più le differenze che le similitudini. Nel film dedicato al mondo dei mattoncini danesi, infatti, i personaggi sono sì giocattoli, ma non hanno alcuna coscienza di esserlo e che esista il mondo reale fatto di carne invece che di plastica colorata. Anzi, è proprio la rivelazione che oltre alla città di Bricksburg ci sia qualcosa di più a scatenare tutto l’impianto narrativo e a permettere al protagonista, l’operaio edile Emmet, di prendere piena coscienza della sua natura e di emanciparsi.
E questo, nonostante Barbie appaia nei film di Toy Story.
Nella serie creata da John Lasseter nel 1995, i giocattoli, quando non visti dagli umani, si animano e vivono un’esistenza parallela e segreta. E per quanto “vivi” e coscienti, sono pienamente consapevoli della loro natura artificiale e restano sempre e comunque giocattoli. Sono calati nel nostro mondo reale, con cui interagiscono secondo logiche e dinamiche reali e hanno le dimensioni reali dei pupazzi (o delle macchinine, o di qualsiasi altra cosa siano) che rappresentano. In Barbie le cose non sono così lineari. Nell’universo narrativo di Barbie esiste un mondo “reale”, dove Barbie è il giocattolo che tutti conosciamo, ideato, prodotto e venduto dalla Mattel, e poi c’è “Barbie Land”, un mondo delle idee pure, iperuranico ma, allo stesso tempo, fisico, dove vivono tutte le Barbie e i Ken (e Allan) mai creati. Una (e uno) per tipo. A Barbie Land le Barbie (e i Ken e Allan) hanno le dimensioni di persone reali e sono, più o meno, di carne, ma non hanno i genitali (il film lo dice espressamente, in uno dei passaggi più spassosi della pellicola), non mangiano, non bevono (anzi, a dirla tutta, non esistono proprio i liquidi nel loro mondo di plastica), vivono in case che non hanno la facciata e non hanno bisogno di scendere le scale perché possono “planare” verso il basso come succede alle bambole sorrette dalle mani delle bambine (e, perché no? Dei bambini). Le Barbie che vivono a Barbie Land sono consapevoli di essere bambole e dell’esistenza di un mondo reale dove loro non sono altro che dei giocattoli di plastica, ma questa cosa non gli crea nessun problema grazie al fatto di vivere all’insegna di una mitologia secondo cui Barbie ha influenzato e cambiato il mondo vero con il suo esempio, rendendolo un posto migliore dove le donne hanno il potere e possono fare ed essere quello che vogliono.
In Sei personaggi in cerca d’autore, i protagonisti sono character non scritti di un dramma mai terminato, che vogliono essere rappresentati dagli attori di una compagnia teatrale. Da questo assunto surreale, si scatena una riflessione complessa sull’arte e la realtà e un disvelamento dei meccanismi artistici che stanno dietro alla creazione. Nell’opera di Pirandello, esiste un conflitto e una tensione tra il rappresentato e il rappresentatore, tra l’idea e la materia, tra il racconto e la realtà. Il Barbie cinematografico, pur sfiorando questi temi anche con una certa intelligenza, pur portando in scena dei personaggi del tutto consapevoli della loro natura fittizia, non lavora sul contrasto e la tensione derivata dal voler essere qualcosa di reale. Barbie sa di essere Barbie e le va benissimo così. Anzi, i problemi sorgono quando la Barbie protagonista della vicenda si scopre meno Barbie del solito. Non è, insomma, un film che riflette sull’esistenziale ma sull’essenziale: quali sono gli elementi che ci compongono che sono indispensabili per definirci?
Ok, la parte noiosa l’abbiamo superata, passiamo a quella più divertente: di cosa parla Barbie?
Di una Barbie Stereotipo (la Barbie più Barbie di tutte e, per questo, l’unica che non ha un vero scopo, una professione, un senso e che, a conti fatti, non sa fare nulla e non serve a nessuno, pur essendo l’archetipo fondante del suo mondo), che un giorno ha dei pensieri di morte. Questo elemento anomalo scatena un effetto a reazione che la porta prima di tutto a poggiare a terra i suoi piedi (altresì, sempre sulle punte) e poi a ritrovarsi (ORRORE!) la cellulite sulle cosce. Questo dramma porterà Barbie Stereotipo a intraprendere un viaggio di ricerca (accompagnata dal suo Ken, il “Ken spiaggia”, altrettanto archetipico e privo di un ruolo specifico anche nel suo mondo) verso quel mondo reale. Ovviamente, scoprirà che le cose non sono semplici come pensava e che il mondo reale è molto diverso da quello che lei aveva idealizzato. In tutta questa vicenda (un poco confusa per le strane regole del mondo narrativo che vengono date) si andranno a innestare il tema del patriarcato, quello del femminismo (anche radicale), del ruolo e delle responsabilità sociali e culturali di Barbie (il giocattolo) nella nostra società passata, presente e futura, il tema dell’autodeterminazione e, soprattutto, il tema del rapporto tra “Barbie e Ken” e di come, in quella “e” che li unisce, si nasconda qualcosa che li separa e li contrappone. Sembra serissimo, vero? E di fondo, lo è. Ma è anche molto divertente, grazie al tocco leggero di Greta Gerwig che, tra un product placement e l’altro (e no, non parlo solo delle bambole e dei loro accessori), riesce a costruire non solo una commedia spassosa e brillante (aiutata in questo anche da interpreti straordinari) ma anche una storia per nulla stupida, graziata da un tocco surreale sullo stile dei fratelli Coen (penso, in particolare, a Mister Hula Hoop), con un paio di scene visionarie e musicali davvero ben concepite e nobilitata da una sferzante satira che colpisce la Mattel, la Warner, Hollywood e persino Ruth Handler, la controversa creatrice della bambola più famosa, venduta e amata di tutti i tempi.
Ora, sia chiaro, Barbie è prima di tutto un’operazione molto furba e la Mattel si mostra scaltra nell’affidare a una regista portatrice di un femminismo piuttosto radicale come Greta Gerwig il suo marchio di punta, lasciando che l’autrice li rappresenti come una sorta di Impero di Star Wars o una società alla Brazil, governata da un board composto di soli uomini (tutti idioti a cominciare, ovviamente, da uno straordinario Will Ferrell). È quel tipo di operazione che ti fa pensare che dietro a una multinazionale del giocattolo (presumibilmente interessata al solo guadagno) ci siano invece delle persone consapevoli delle criticità culturali dei loro prodotti e pronte ad affrontarle apertamente, con autoironia e mettendosi in gioco, riscrivendo le regole per il futuro. Ma è, anche (e, forse, principalmente) un’operazione per riposizionare il marchio Barbie nella sensibilità del tempo, cercando di avvicinarla a quella Generazione Z che sembra refrattaria a “giocare con le bambole” (e con le bambole Mattel, in particolare) e quindi, in sostanza, per vendere ancora di più. Questo inficia la qualità del film? Per niente. Perché Greta Gerwig è prima di tutto una bravissima regista, che confeziona un film dal ritmo quasi perfetto (si sfilaccia leggermente nel finale ma è un difetto veniale), montato benissimo (da Nick Houy), fotografato splendidamente (da quel mezzo genio di Rodrigo Prieto) e interpretato da una serie di attori in stato di grazia (su tutti, Ryan Gosling, sulle cui spalle pesa la parte più difficile e importante del film, sia per il lato attoriale puro, sia per quello delle performance, visto che è il protagonista centrale dei numeri musicali). Ma, soprattutto, Greta Gerwig confeziona esattamente il film che ci si aspettava da lei, del tutto coerente con la sua cinematografia pregressa. La sua voce si sente forte e chiara, il suo tocco alla regia è riconoscibilissimo e i suoi temi radicali in ambito di femminismo emergono con forza e senza nessun compromesso, specie in un finale che appare conciliante solo al livello più superficiale ma che, in realtà, ci dice che la guerra tra i sessi non solo non è conclusa ma è appena cominciata e che, prima che finisca, bisognerà soffrire parecchio, specie se si è uomini.
E, tutto sommato, un messaggio del genere, in un film su una bambola giocattolo, non era per niente scontato o dovuto.
Insomma, bello a vedersi e sentirsi, divertente, intelligente, furbo, sorprendentemente impegnato ed estremo. Molto, molto, molto, consigliato.
Ora scusatemi ma devo andare a comprarmi un Ken Spiaggia, per sostenere la causa dei Ken nel mondo.