Cinema Recensioni

In Asteroid City prevale la forma, e va bene così

Pubblicato il 17 luglio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Wes Anderson non scende a compromessi, e dal pubblico si aspetta esattamente lo stesso: vedere un suo film significa firmare un patto implicito con l’autore, lasciandosi alle spalle qualunque pretesa di verosimiglianza o empatia melodrammatica. Se The French Dispatch sembrava già esacerbare questo rapporto tra regista, opera e spettatori, Asteroid City ne rappresenta il culmine, come una resa definitiva di fronte alla ripetitività dei temi e alla penuria degli argomenti. Ma non è un difetto, anzi: nelle mani di Anderson, i limiti divengono un’opportunità per radicalizzare ulteriormente il suo cinema.

Forse è vero che il cineasta texano non ha più molto da dire, eppure questo ha scarsa importanza nella riuscita di Asteroid City. È chiaro fin dall’inizio che il discorso supera i confini del racconto e mira al processo creativo, in un gioco a scatole cinesi: siamo nel 1950, e un annunciatore (Bryan Cranston) introduce la rappresentazione televisiva di un testo teatrale scritto da Conrad Earp (Edward Norton), noto drammaturgo. Al centro dello spettacolo troviamo la Junior Stargazer, una convention di astronomia ospitata dall’eponima cittadina nel deserto, dove alcuni piccoli geni riceveranno dei premi per le loro invenzioni. Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) arriva con il figlio adolescente Woodrow (Jake Ryan) e le tre figlie minori, a cui non ha ancora detto che la madre è morta da tre settimane. Fra gli ospiti c’è Dinah (Grace Edwards), figlia della famosa attrice Midge Campbell (Scarlett Johansson), che lega subito con Augie.

La cittadina si popola ben presto di visitatori, come l’insegnante June Douglas (Maya Hawke) e la sua scolaresca, o il cantante country Montana (Rupert Friend), che s’invaghisce di lei. Le loro storie, a colori e in formato panoramico, si alternano al bianco e nero dello speciale televisivo, dove vediamo il lavoro di Earp e degli attori, mentre il presentatore fa capolino davanti alla telecamera anche quando non dovrebbe.

Ci sono quindi tre livelli di finzione, come in Grand Budapest Hotel: anche qui, infatti, ogni piano narrativo ne contiene un altro. Il processo della creazione è però molto più palese, sbattuto in faccia al pubblico senza alcuna remora, e l’uso del teatro non è affatto casuale. D’altra parte, il teatro stesso implica un patto fra autori e fruitori che rievoca proprio il cinema andersoniano: di fronte a un palcoscenico, accettiamo per convenzione che le scenografie siano posticce, che le proporzioni non siano credibili, che i personaggi si esprimano in modo poco naturale. È come se Anderson volesse ricordarci quell’accordo, sventolandoci il contratto davanti al naso. Il suo cinema è così, e non possiamo aspettarci altro.

Questo si riflette anzitutto sulle scenografie di Adam Stockhausen, che non cercano il realismo, ma restituiscono l’idea di un diorama a grandezza naturale. Tutto è finalizzato a svelare l’artificiosità della rappresentazione, come i colori saturi della fotografia di Robert Yeoman e i movimenti smaccati della cinepresa. Un discorso simile concerne anche i dialoghi: per quanto drammatico possa essere il tema della conversazione, le battute sono pronunciate con distacco, senza tradire emozioni. Anderson, insomma, raggela la messa in scena e le interpretazioni del cast per spingere il pubblico al di fuori di essa, imponendo una distanza quasi brechtiana.

È un film a tratti spassoso, punteggiato da almeno tre scene memorabili, ma il regista texano sa di non avere più molti argomenti per coinvolgerci nella trama. Certo, abbiamo di nuovo i piccoli geni che gli sono sempre stati cari fin dai tempi di Rushmore, e c’è un ritorno negli Stati Uniti (dopo tre film ambientati all’estero) che satireggia l’ossessione americana per la competitività, il pragmatismo e la burocrazia. Al contempo, però, nell’intreccio non sembra crederci nemmeno lui: di fatto, in Asteroid City succede ben poco, e quello che succede non ha grande rilevanza per la storia. Lasciamo la cittadina del deserto nelle stesse condizioni in cui l’avevamo trovata, mentre le svolte narrative sono paradossali, buffonesche. Pur essendoci anche qui la morte di un personaggio – snodo classico delle sue sceneggiature – il vero dramma si è consumato fuori campo, prima dell’inizio del film, ed è la scomparsa della moglie di Augie.

Dopo anni di opere polarizzanti, Anderson sceglie di fare per davvero ciò che i suoi detrattori gli hanno sempre rimproverato: privilegiare lo stile sul contenuto, la forma sulla sostanza. Una distinzione che ormai non ha più senso, poiché qui la forma è la sostanza. I due elementi coincidono. Ne deriva un gioco scintillante che talvolta si compiace del suo essere involuto, come i giovani inventori con le loro creazioni e i loro discorsi pretestuosi. In fondo, abbiamo sempre saputo che Wes Anderson faceva parte del gruppo.