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Animali selvatici, la recensione del film di Cristian Mungiu

Pubblicato il 06 luglio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Il titolo originale di Animali selvatici è R.M.N., acronimo di Risonanza Magnetica Nucleare: si tratta di una tecnica per la generazione di immagini che, in campo medico, permette di compiere un’indagine approfondita sul corpo del paziente, e quindi “rilevare le cose sotto la superficie”, citando il regista Cristian Mungiu. Questa tecnologia compare in una scena del film, ma il discorso va ben oltre i riferimenti letterali. Animali selvatici, infatti, è soprattutto una mappatura dell’abiezione umana che rileva le peggiori tendenze dell’Europa contemporanea, come uno scanner puntato sulla malattia.

Le creature ferine del titolo italiano sono quelle che popolano le foreste attorno a Recia, il villaggio della Transilvania dov’è nato il protagonista Matthias (Marin Grigore). Impiegato in Germania, Matthias lascia il lavoro dopo aver reagito a un insulto razzista, e torna al paese natio dalla moglie Ana (Macrina Barladeanu) e dal figlio Rudi (Mark Edward Blenyesi). Con Ana il rapporto è freddo, anche per le divergenze sull’educazione del bambino: Matthias cerca di trasmettergli forza e indipendenza – in particolare verso i pericoli della natura selvaggia – mentre Ana è più protettiva. Al contempo, però, l’uomo riallaccia i contatti con la sua ex, Csilla (Judith State), dirigente di un panificio industriale molto importante a livello locale.

È proprio qui che vengono assunti tre operai cingalesi, con cui Csilla stabilisce subito un legame di amicizia. Lo stesso non può dirsi per gli altri paesani: accusano gli immigrati di “rubare il lavoro”, e non accettano che il pane sia preparato da mani straniere; in realtà, la proposta lavorativa del panificio era stata completamente ignorata dagli abitanti di Recia, le cui proteste sono puramente xenofobe. Mentre la situazione diviene sempre più critica, Matthias è diviso fra il razzismo dei concittadini, la sensibilità civile di Csilla e i timori di Rudi, che ha smesso di parlare dopo uno strano incontro nel bosco.

Fin dall’esordio in Occident, Mungiu lavora sulla relazione tra la sua Romania e il tanto anelato Occidente, terra da invidiare o antagonizzare, a seconda dei punti di vista. Se Matthias insiste perché il figlio impari il tedesco e abbia un futuro in Germania, il padre di Ana ci tiene a ricordare come i rumeni abbiano resistito per secoli alle pressioni degli Unni e di altri invasori, proteggendo un’Europa che si è dimostrata irriconoscente. Tra orgoglio nazionale e complesso d’inferiorità, il piccolo villaggio della Transilvania è consumato dalle stesse discriminazioni che vediamo nel resto del continente, fatto ancor più paradossale se consideriamo la natura multietnica della regione. Non a caso, Animali selvatici immerge la vicenda in una straordinaria polifonia linguistica (si parla rumeno, ungherese, cingalese, inglese, francese, tedesco) che corrisponde a un melting pot culturale sempre più marcato, persino ai margini dell’impero.

I processi sociali, insomma, non sono così diversi da quelli che si verificano in Francia, Italia o Germania, paesi dove i rumeni – R.M.N. sono anche le uniche consonanti di “Romania” – subiscono il medesimo razzismo a cui gli abitanti di Recia sottopongono tanto i Rom quanto gli immigrati stranieri. A tal proposito, Mungiu sa bene che l’inevitabile conseguenza è una guerra tra poveri, sempre più comune fra gli strati popolari dell’Occidente. Lo sguardo analitico del regista è affilatissimo ed equo: gli scontri d’opinione sono girati con raffinati piani sequenza a camera fissa, in campo totale, dove l’azione sembra svilupparsi da sé anche per lunghi minuti, e l’occhio del pubblico è libero di scegliere dove guardare (memorabile la sequenza dell’assemblea, un vero colpo da maestro a livello di organizzazione e direzione degli attori). In altri casi, Mungiu usa la macchina da presa per ribaltare le aspettative, e svelare dettagli che cambiano la prospettiva su una singola scena. A volte basta un movimento dell’inquadratura per stravolgere tutto: la cinepresa, per lui, è uno strumento rivelatore.

È un film splendido e densissimo, Animali selvatici. Ci avviluppa in una narrazione che parte verista, ma evolve per gradi – senza che nemmeno riusciamo ad accorgercene – in qualcosa di enigmatico, sottilmente misterioso e surreale. Cos’ha visto davvero Rudi nel bosco? Un animale, un viandante o una sinistra prefigurazione del futuro? L’epilogo stesso, fra i più criptici che il cinema contemporaneo ci abbia regalato, non fornisce risposte certe, ma pretende lo sforzo interpretativo del pubblico. Questa deriva spettrale va probabilmente intesa come un’accettazione dell’assurdo da cui siamo circondati, una resa davanti all’impossibilità di risolvere i conflitti, comprendere gli orrori, scardinare l’intolleranza. Ma è anche la ricerca di una sintesi fra natura e cultura, via della forza e via della grazia: quella in cui sembra intrappolato il bambino stesso, nell’eterno dilemma della crescita.