Spider-Man: Across the Spider-Verse, la recensione: arte in movimento

Spider-Man: Across the Spider-Verse, la recensione: arte in movimento

Di DocManhattan
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C’è stato un breve ma significativo periodo, nel 1965, in cui Stan Lee decise di sostituire il nome Marvel Comics Group sulle copertine degli albi della casa editrice. Per circa un anno, una ventina di fumetti di Spider-Man, Avengers, Fantastici Quattro, Daredevil e soci vennero presentati come creazioni della “Marvel Pop Art Productions.” Perché mai, si sarà chiesto il Sorridente Stan, dovremmo lasciare tutta la gloria a Lichtenstein, che trasforma in un quadro di successo una vignetta di Kirby con Magneto degli X-Men, senza chiederci il permesso? Quasi sessant’anni dopo, esco da una sala dopo la visione di Spider-Man: Across the Spider-Verse, e la prima cosa a cui penso e continuo a pensare per il resto della serata è quanto sia dannatamente bello quello che ho visto. Un film di super-eroi che si prende la briga di sperimentare molto di più di un primo capitolo che già si era presentato come una ventata d’aria freschissima nel settore. Mi scorrono ancora negli occhi gli sfondi liquidi e inquieti, i giochi di colore dal forte simbolismo del lungo prologo dedicato a Gwen, e lì mi dico: se non è oggettivamente arte pop in movimento questa, non può esserlo niente. Arte pop in un film da 100 milioni di dollari (marketing escluso) che farà vendere tonnellate di action figure e merchandising in tutto il pianeta: sorridi, Stan, ovunque tu sia, perché è successo.

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UN MERAVIGLIOSO, CORAGGIOSO GIOCATTOLO

Del resto, creare un film sbancabotteghini non vuol dire necessariamente prendersi pochi rischi, giocarla facile, di piatto, come fa – anche comprensibilmente, per carità, considerato il target e il precedente nefasto – il film di Super Mario. Può voler dire, ci dimostra il piccolo esercito di registi e sceneggiatori di Spider-Man: Across the Spider-Verse (Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson i primi, Phil Lord, Christopher Miller e David Callaham gli altri, Avi Arad in porta) anche poggiare su una base già solidissima con cui cinque anni fa Spider-Man – Un nuovo universo si era portato pure a casa uno strameritatissimo Oscar, e da lì procedere a briglie sciolte.

Per quanto la sua storia sia nel complesso perfettamente fruibile da chiunque, Spider-Man: Across the Spider-Verse non è un film facile da assimilare nella sua interezza per un bambino piccolo, tanto per iniziare. I salti dimensionali della trama, le motivazioni dei vari personaggi in ballo, il concetto stesso di eroe e antagonista, i puntini da collegare al volo nel finale, sono una faccenda più sfumata, per un pubblico adulto. Il sovraccarico visivo, frutto di una sperimentazione stilistica che parte al minuto zero dai nomi delle aziende che lo hanno prodotto e trascina in un delirio sensoriale lungo due ore e venti, magari per uno spettatore più cucciolo può risultare frastornante. Non so, non è una cosa facile da quantificare, ma sebbene un paio di casi non facciano ovviamente statistica, gli unici bambini piccoli in sala l’altra sera sono usciti e rientrati più volte. Se non avevano bevuto troppa cola, magari avevano solo bisogno di un break durante quel bombardamento sinestetico.

E questo sì, insomma, per dire che mentre tutti continuavamo a fissare Pixar in attesa di nuovi miracoli, Sony Pictures Animation è riuscita a sfornare un film d’animazione maturo ancora più quadrato e coraggioso del suo predecessore. Cosa che non erano in tanti ad aspettarsi. Anzi, nei mesi scorsi i cori di “ma temo che dopo il primo cosa vuoi stupire più?” non sono affatto mancati. E invece.

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UN ANIMO PUNK COME SOLO SPIDER-PUNK

Invece c’è che questo caleidoscopio impazzito è in grado di far coesistere un personaggio pazzesco come Spider-Punk – praticamente un Jean-Michel Basquiat con l’estetica personalizzata da volantino fotocopiato di un concerto punk – a un Avvoltoio leonardiano. E questo giusto per limitarci a un paio di esempi già mostrati nel materiale promozionale e non rovinarvi la sorpresa. Si tratta infatti solo della punta di un iceberg dal moto perpetuo, di una macchina dello stupore in cui la quantità di contenuti, cameo, citazioni è semplicemente soverchiante. Un fiume in piena di ragno-follia in cui davanti allo schermo provi ad aggrapparti dove ti riesce, prima che sia la corrente a trascinarti via mentre ti ripeti duecento volte che non vedi l’ora di avere il film in versione domestica per beccarne ogni singolo omaggio, fotogramma per fotogramma.

“E ok, visivamente è una bomba, ma la storia com’è?”, si starà chiedendo magari qualcuno. “Convincente”, risponderei, dovessi limitarmi a un unico aggettivo. Il concetto alla base del primo film era il portato della massima di Stan Lee per cui Spider-Man è un eroe perfetto perché chiunque può identificarsi in lui sotto quella maschera: e quindi c’erano Spider-alter ego pronti per tutti, e per tutte le età, compreso il primo Peter Parker quasi quarantenne mai visto al cinema. Spider-Man: Across the Spider-Verse rilancia il discorso passando al suo secondo punto, che si dà sempre per assodato in qualsiasi incarnazione del personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko: d’accordo, da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ormai lo sanno pure i muri… ma a cosa sei disposto a dire addio per quella responsabilità?

Un elemento fondante della genesi di Spider-Man, di tutti gli Spider-Man, viene passato al microscopio come tale: il dramma personale che ha trasformato Peter Parker e tutti gli altri eroi coevi co-creati da Stan Lee da arroganti menefreghisti e alfieri della hubris in paladini del bene. E in questo bilanciamento di affetti e sacrifici, dove si collocano i vari protagonisti? A cosa sono pronti a rinunciare? È questo, qui, a fare la differenza e gli schieramenti.

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PROVA A SMACCHIARMI QUESTO

Spider-Man: Across the Spider-Verse non è uno di quei film d’animazione, come tanta produzione recente (Disney, ma non solo) che accantona la figura del cattivo, convinto di poterne fare a meno, perché in fondo tutti hanno le loro ragioni. Un corno. Spider-Man: Across the Spider-Verse è un film in grado di rendere inquietante un villain di serie Z come La Macchia, fino a ieri preso ripetutamente a schiaffi perfino dall’omino bianco dell’additivo per il bucato. E, al di là di ciò, di mettere in discussione  – come si accennava poc’anzi – la definizione classica di eroe e di villain ma senza metterla da parte.

Le gag completamente folli della prima parte lasciano spazio nella seconda a un mood più drammatico, che serve a tirare la volata al terzo film in cui la storia arriverà a conclusione, Spider-Man: Beyond the Spider-Verse. In una perfetta applicazione, direi, della regola classica delle trilogie coniata da Lucas e Spielberg: il secondo capitolo dev’essere quello dall’animo più dark. Si ride, si ride e poi si ride ancora, ma dopo arrivano le domande, i dubbi esistenziali a cui tutti – pubblico incluso – devono provare a dare una risposta.

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MIGUEL O’HARA: IL 2099 È UN ALTRO GIORNO

È un teatro di varia spider-umanità in cui ognuno dei membri principali di un cast sterminato ha il suo spazio, la sua dose di riflettori, un suo significato specifico. Se Miles Morales e Gwen Stacy sembrano più adulti rispetto a come li avevamo lasciati cinque anni fa, è perché lo sono. La loro quasi-relazione a distanza deve affrontare prove ben più dure di quelle che un tempo tamponavi con una Summer Card della Omnitel. In ballo non c’è solo il cuore, c’è tutto. E nella loro orbita vedi muoversi e far valere le proprie ragioni figure come Peter, un’altra Spider-Woman e un tetro Miguel O’Hara, alias Spider-Man 2099.

Per i casi della vita, giusto poche ore prima e a un paio di chilometri al massimo da quel cinema, avevo domandato proprio al co-creatore di Spider-Man 2099, Rick Leonardi, come mai secondo lui la corporatura di Miguel fosse così diversa in Across the Spider-Verse. Sia rispetto ai fumetti, sia rispetto a quanto visto nelle scene dei titoli di coda di Spider-Man – Un nuovo universo. Leonardi – ingaggiato dai produttori per adattare il design del personaggio per il film – giustamente, ha sottolineato che quel look serve non solo a distinguere il più possibile Miguel da Miles, ma anche a rendere più minaccioso il primo.

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SONO GIORNI SPLENDIDI PER CHI AMA L’ANIMAZIONE

Immagino non serva, a questo punto, dirvi che Spider-Man: Across the Spider-Verse è un film che va visto, nel cinema con il miglior schermo e il miglior audio per voi raggiungibile, nonché una delle migliori pellicole di super-eroi che mi sia mai capitato di vedermi scorrere davanti agli occhi. La prova provata di come l’animazione non è solo un parchetto recintato, un genere di per sé, come si ostinano a pensare tutti quelli che vogliono proprio far innervosire Hayao Miyazaki, ma un mezzo espressivo che, nelle mani e con le idee giuste, ha molti meno limiti del cinema live action.

Dopo il piacevole Suzume di Shinkai e soprattutto dopo quel galvanizzante capolavoro di The First Slam Dunk, è la terza opera animata di fila nel giro di un mese che mi fa uscire da una sala sentendomi in pace con il mondo. Solo che come faremo ora ad attendere fino a Spider-Man: Beyond the Spider-Verse (marzo del 2024) nessuno lo dice, mannaggia la spider-miseria.

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