In Pakistan, l’età minima di una ragazza per contrarre matrimonio è di 16 anni, e nelle zone rurali la compravendita delle spose è ancora esistente. Una ricerca del Demographic and Health Survey relativa al biennio 2017-2018 osservava che solo il 19% delle donne sposate aveva un lavoro, e che solo il 3% (contro il 72% degli uomini) possedeva una casa di sua proprietà. In un campione di maschi fra i 15 e i 49 anni, il 41% sosteneva che in varie circostanze fosse giustificabile picchiare la moglie a scopo punitivo. Nel medesimo spettro di età, il 28% delle donne aveva subìto violenza fisica fin dai 15 anni, e il 6% aveva subìto violenza sessuale. Il 34% delle donne sposate, inoltre, aveva esperienze di violenza fisica, sessuale o emotiva all’interno del matrimonio.
Insomma, non è difficile immaginare cosa alimenti il fuoco di Polite Society, dati alla mano. Il film dell’esordiente Nida Manzoor si svolge tra i pakistani ricchi di Londra, ma il substrato culturale non è molto diverso: varie forme di coercizione – magari più subdole – sussistono comunque tra genitori e figlie, o tra mariti e mogli. È anche questa consapevolezza a muovere le azioni di Ria (Priya Kansara), adolescente che sogna di diventare una stuntwoman come il suo idolo Eunice Huthart. A tal fine, si allena duramente nelle arti marziali con il sostegno di sua sorella maggiore Lena (Ritu Arya), che sta vivendo un periodo difficile dopo aver lasciato la scuola d’arte. Quando conosce l’acclamato genetista Salim (Akshay Khanna), figlio dell’amica di famiglia Raheela (Nimra Bucha), Lena ne rimane affascinata e si fidanza con lui. Tutti sono felici, tranne Ria, convinta che la sorella non dovrebbe gettare al vento i suoi sogni artistici per sposarsi. La ragazza è quindi determinata a sabotare il matrimonio, e comincia a indagare su Salim.
Nida Manzoor si è fatta conoscere grazie alla serie We Are Lady Parts, da lei creata, scritta e diretta per Channel 4: ruotava attorno a una punk band composta interamente da donne musulmane, ed è chiaro che Polite Society si pone in continuità con quell’esperienza. Anche qui, infatti, Manzoor immette delle ragazze musulmane in situazioni ben diverse da quelle che vediamo solitamente nel cinema più commerciale, dimostrando come cambia il punto di vista quando le autrici BIPOC possono raccontare le loro storie in autonomia. Da We Are Lady Parts, peraltro, il film eredita l’anima punk che accomuna le due sorelle, sia nei conflitti sia nei momenti solidali: si vede benissimo quando Ria e Lena ballano insieme, o combattono per una divergenza di opinioni sul matrimonio. Sì, perché Polite Society è anche un film d’azione, figlio dell’amore di Manzoor per Jackie Chan e per le contaminazioni postmoderne di Edgar Wright. Non a caso, Scott Pilgrim Vs. the World è il riferimento più palese: la regista costruisce un mondo stilizzato e surreale dove chiunque sembra conoscere il kung-fu, e la trama è divisa in capitoli da fumetto.
Si tratta di un gran pastiche che unisce generi e registri diversi, spaziando dalle arti marziali alla commedia adolescenziale, dalla satira di costume alla fantascienza. Il suo limite, però, è di non abbracciare fino in fondo nessuno di questi elementi: nel tentativo di bilanciarli, Polite Society li mette in fila senza convinzione, alternandoli tra loro invece di contaminarli l’un l’altro. Così, gli incontri di kung-fu tra Ria e gli altri personaggi sembrano avulsi dal contesto, e l’effetto è poco armonico. Non c’è dubbio, però, che Manzoor abbia intuizioni spassose, e costruisca una storia “ideologicamente” sensata nella sua assurdità. Forse un’opera del genere non sarebbe stata possibile prima del movimento MeToo, non in termini così radicali: la sceneggiatura è infatti guidata dal medesimo femminismo essenzialista che caratterizza molto cinema mainstream, e che in tal senso può suonare un po’ didascalico e artificioso (non certo nelle posizioni, ma nel modo in cui le esprime).
In compenso, questo permette a Manzoor di dar voce a una generazione piena di rabbia, stanca dell’ineguaglianza e dell’oppressione patriarcale, che cerca l’autodeterminazione tramite le sue passioni più grandi. Ria parla da adolescente, e in quanto tale può suonare ingenua, ma è giusto così: il suo furore risveglia infatti l’apatia di Lena, salvandola dalla disillusione e dal ridimensionamento delle sue ambizioni. Polite Society è un grido d’indipendenza contro i matrimoni combinati, i mammoni nascosti dietro maschere da playboy, le madri che viziano i figli maschi e la visione delle donne come uteri semoventi. Per ribellarsi a tutto ciò, le ragazze sanno che l’unico sistema è combattere, letteralmente. Le arti marziali divengono uno strumento di liberazione, utile a contraddire quella vecchia immagine che le vuole pacate, remissive, fragili e cortesi. Forse non è un’idea nuovissima, ma è raro che venga applicata al contesto musulmano, e il valore aggiunto risiede proprio qui. D’altra parte, sorellanza significa anche lottare spalla a spalla contro orde di avversari.