Il reciproco guardarsi tra uomo e animale è un tema ricorrente nel cinema per ragazzi, anche perché spesso sono proprio i più giovani – antispecisti inconsapevoli – a dimostrare maggiore empatia per gli animali stessi. Chiunque sia cresciuto negli anni Novanta ricorderà l’imprevedibile caso di Free Willy, grande successo commerciale del 1993 che apparve persino nei programmi scolastici: ecco, Denti da squalo attinge qualcosa anche da lì, come dai molti racconti di formazione che Hollywood produceva in quel periodo.
La sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, vincitrice del Premio Solinas nel 2014, non si limita però a rimasticare topoi d’oltreoceano: come accade nei film di Gabriele Mainetti, qui produttore con la sua Goon Films, Denti da Squalo è calato in una realtà sociale prettamente italiana, e non solo in termini geografici. Siamo sul litorale romano, dove il tredicenne Walter (Tiziano Menichelli) vive con la madre Rita (Virginia Raffaele). Nel suggestivo incipit senza dialoghi capiamo che Walter ha appena perso il padre (Claudio Santamaria), morto per un incidente nella fonderia. Mentre Rita lavora in uno stabilimento balneare, il ragazzino cerca una connessione con il genitore scomparso, ed esplora una grande villa disabitata che appartiene al Corsaro (Edoardo Pesce), un temuto boss locale. La piscina in giardino è molto invitante, ma Walter ci trova una sorpresa: nella vasca nuota infatti uno squalo. All’inizio spaventato, poi incuriosito, Walter comincia a frequentare la villa per isolarsi dal mondo. Un giorno però viene sorpreso da Carlo (Stefano Rosci), un ragazzo più grande che sostiene di essere il custode: prendendosi cura dello squalo, tra i due nasce una solida amicizia. Walter viene quindi introdotto nel giro della piccola criminalità, proprio quando Rita cerca di stabilire un dialogo con lui.
È interessante notare come il cinema europeo affronti spesso la fascinazione dei preadolescenti per l’età adulta, di cui replicano le abitudini per smarcarsi dall’infanzia. In Denti da squalo c’è anche una linea ereditaria tra padre e figlio, laddove quest’ultimo sente la responsabilità di raccogliere il testimone del genitore. Si tratta però di un racconto formativo, quindi giocato sulla presa di coscienza: Walter giunge all’epilogo in una condizione diversa da quella iniziale, com’è giusto che sia. È lui il perno della narrazione, non il rapporto con lo squalo, che funge da espediente metaforico piuttosto scontato (essere predatori, avere i denti da squalo, significa ottenere un ruolo dominante nella vita). L’animale si fa coscienza e testimone del protagonista, ma diviene anche il simbolo di un’estate avventurosa e infinita, come può esserlo solo per un bambino.
Non a caso, l’estate è spesso una stagione di cambiamento: da Stephen King ai cult per ragazzi degli anni Ottanta, il nostro immaginario collettivo è ricco di precedenti. Denti da squalo ha però il merito di inquadrare il racconto formativo da un’angolazione diversa rispetto alla media del cinema italiano, lavorando sul mistero e sulla contaminazione dei registri. C’è il coming of age, certo, ma anche un pizzico di thriller, piccoli inserti surreali e sfumature da commedia adolescenziale, in quell’interregno tra Roma e Mar Tirreno che rievoca i film di Claudio Caligari. La sceneggiatura riesce a far convivere questi elementi in modo organico, pur semplificando alcuni passaggi narrativi che avrebbero meritato quantomeno una spiegazione. In compenso, il regista esordiente Davide Gentile dimostra già una grande sicurezza, sia nel dirigere i giovani attori sia nell’ibridare tecniche diverse (riprese dal vivo, animatronica e CGI) per dar vita allo squalo. Ma è anche la bravura del cast a consolidare il racconto: Tiziano Menichelli e Stefano Rosci recitano con scioltezza, dando prova di notevole affiatamento, mentre la performance introspettiva e misurata di Virginia Raffaele la consacra a ottima interprete drammatica.
Se i riferimenti maschili di Walter incarnano un modello patriarcale basato sulla violenza machista (dal quale però il padre si era smarcato), Rita rappresenta invece il buonsenso, capace di valorizzare l’interiorità e il confronto civile. Walter, diviso com’è tra le spinte della natura e della grazia, deve scegliere che tipo di persona vuole diventare, e il ritorno all’infanzia si pone in linea con il cinema europeo più recente: in fondo, accadeva qualcosa di simile anche in due film come Mignonnes e L’amore secondo Dalva, pur trattandosi di esperienze completamente diverse a livello tematico ed emotivo. D’altra parte, sarebbe il caso di meditare sul fatto che le produzioni italiane mainstream tendano sempre ad associare il proletariato alla criminalità, le rare volte in cui decidono di metterlo in scena. Accade anche qui, ma forse non è giusto incolpare Denti da squalo, che quantomeno ha il merito di raccontare un’emancipazione da quel mondo. In ogni caso, restare vigili sulla rappresentazione delle classi popolari al cinema – in un paese che sembra odiarle sempre di più – è doveroso.