The Lasso Way: quello che Ted Lasso mi ha insegnato in questi anni

The Lasso Way: quello che Ted Lasso mi ha insegnato in questi anni

Di DocManhattan
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“Fischio! Fischio! Fischio!”, grida idealmente nella mia testa Roy Kent alla fine di questa terza stagione di Ted Lasso, lasciando tutto il microcosmo che ruota attorno all’AFC Richmond a tirare le somme di questi tre anni di avventure dentro e soprattutto fuori dal campo. E il pubblico, sostanzialmente, a fare lo stesso. D’ora in poi [SPOILER], perciò leggete solo dopo aver visto il 12° episodio.

[SPOILER SUL FINALE DI STAGIONE, OCCHIO]

I dubbi della vigilia sul fatto che questo episodio 12 avrebbe chiuso non solo la terza stagione ma, salvo eventuali spin-off futuri, tutta la serie di Ted Lasso – per via del fatto che gli autori si erano limitati a dire che avevano scritto questa stagione 3 “come se fosse l’ultima”, ma senza dichiararla ufficialmente tale, e del susseguirsi di indizi da parte dei membri del cast nelle ultime settimane – si erano già accomodati in panchina dopo aver letto il titolo dell’episodio: “So long, Farewell” (da noi “Addio, vi salutiamo”). Sì, Ted e i suoi amici erano arrivati alla fine del viaggio. Quanto meno, di questo viaggio, quello personale dell’allenatore baffuto di Jason Sudeikis.

In una stagione che sembrava esser partita con il freno a mano e che solo dopo la trasferta ad Amsterdam, al giro di boa del sesto episodio, era tornata davvero in pista, il finale di serie è ovviamente una chiusura del cerchio (anzi, di tanti cerchi, per tutta una serie di sottotrame) dopo un preciso viaggio in tre atti, e non si allontana dalla filosofia di fondo dello show. Semmai, la sottolinea con un pennarello fluo.

E qui, che quel messaggio funzioni o meno, che si arrivi alla fine lamentando un melenso eccesso di buoni sentimenti o, al contrario, con le lacrime agli occhi sulle note di quella maledetta Father and Son di Cat Stevens, come è successo a chi vi scrive, dipende ovviamente da come ci si è approcciati in questi tre anni a una serie nata da degli spot americani per la Premier e diventata un emblema degli show “feel good”.

Ted Lasso finale recensione

MEGLIO ESSERE TED

Quando si era nel pieno della febbre per quel capolavoro di serie animata che era e resta BoJack Horseman, c’era questa tendenza sui social di identificarsi nel suo equino protagonista. Tanto che è toccato al suo autore, Raphael Bob-Waksberg, spiegare che per quanto fosse umanissimo vedere nella depressione del primo BoJack, nei suoi sbagli, nelle dipendenze e in quello a cui portano – menzogne per raccontarla e raccontarsela – una parte di sé stessi, il punto era però fare i conti con tutto questo, e non considerare lo show un’altra scusa, sentirsi fighi perché si era autodistruttivi come BoJack.

Quando si parla di Ted Lasso, inevitabilmente, c’è chi dipinge la serie e il suo protagonista come una zuccheratissima fiera dei buoni sentimenti. Tornando al fatto che ognuno ha una sua sensibilità e dei gusti propri al riguardo, e detto che sì, sono i buoni sentimenti il succo di Ted Lasso, a volte mi sono chiesto in questi tre anni quale fosse il problema. Ce n’era davvero uno? Cosa c’è di intrinsecamente sbagliato in uno show che i problemi non li evita, ma prova a risolverli con il sorriso?

Non è reale? Oh, certo. Quanto delle serie che guardiamo lo è? Ma il Lasso Way, che poi in coda diventa correttamente Richmond Way perché adottato da tutti, sta nel viaggio, non nel punto di arrivo. È soprattutto il non crogiolarsi nei propri errori, nelle proprie debolezze e imperfezioni, e provare ad affrontarli. Provare, perché magari non ci riesci, ok, e non è sempre facile, ma intanto ci provi. Non li lasci lì. Che si tratti dell’aggressività di un burbero ex calciatore, degli attacchi di panico dell’allenatore, di una vita votata a distruggere quella del tuo ex. Chiaro che il razzismo non lo sconfiggi con un sorriso: i razzisti, a volte, però sì.

E se la ferocia del mondo in cui viviamo ci urla nella testa che non possono esistere davvero un quartiere e una squadra in cui tutti sono buoni e dove per tutti c’è una possibilità di redenzione (tranne che per una vera merda umana, vestito appropriatamente in questo finale da supervillain con tanto di spolverino/mantello nero), il senso è che talora affrontare le cose con un piglio positivo funziona.

Ted Lasso finale recensione

VINCERE ANCHE QUANDO NON VINCI

Come BoJack Horseman, anche Ted Lasso è una serie che parla, con qualche leggera nota drammatica in un tessuto narrativo di pura commedia, di problemi mentali, ma lo fa sin dall’inizio con una chiave di lettura precisa, che tocca alle parole del saggio amministratore e occasionalmente jazzista Leslie Higgins mettere in chiaro poco prima della fine: farsi aiutare. I problemi di tanti dei protagonisti cambiano volto, e in molti casi vengono meno, quando decidono di lasciar perdere l’orgoglio, la paura di esporsi, qualsiasi timore abbiano al riguardo, e chiedono aiuto.

Personalmente, non ho mai creduto nei cartelli motivazionali o nel penso positivo (perché son vivo, perché son vivo). Credo però che le storie hanno sempre la capacità un po’ magica di farci vedere anche noi stessi da un altro punto di vista, appunto, tramite dei personaggi a cui ti fanno affezionare. E sì, a volte chiedere aiuto (a seconda dei casi a un professionista, a chi ti circonda, alle persone a cui vuoi bene) non solo è necessario, ma è anche l’unica strada davvero percorribile.

E allora chi se ne frega che il Richmond non abbia vinto il campionato (non lo hanno fatto neanche Rocky Balboa e Joe Yabuki): ce l’ha messa tutta, come ce l’hanno messa tutta i suoi personaggi. Al di là dell’ottovolante di risultati, Ted Lasso, l’uomo, con i suoi completi immutabili maglioncino, camicia, pantaloni e zainetto, questo alieno yankee con i baffi di Ned Flanders, le vite di queste persone le ha cambiate. Un minimo, volendo, anche quelle dei suoi fan: cercare di essere persone migliori, per sé e per gli altri, è una cosa che va al di là del risultato.

E allora ciao, Ted. Non so se sono pronto a fare a meno delle tue citazioni ermetiche da americano e del tuo ottimismo, ma è giusto così. Giuro che ci provo a ricordare sempre quello che c’era scritto su quel cartello fatto a pezzi, e poi miracolosamente ricomposto senza tracce di sudore sui pezzi portati addosso dalla squadra, su quel kintsugi di cartoncino in cui l’oro è la forza di volontà. Sì, anche se non ho mai creduto ai cartelli motivazionali, prometto di crederci. Grazie di tutto.

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