The Doc(Manhattan) is in Animazione
Avevo un po’ di timore, lo confesso. Temevo che dopo l’incerto, mai realmente a fuoco ma pieno d’acqua Weathering with You (2019), il cinema di Makoto Shinkai potesse aver smesso di affascinarmi. Che questo ex sviluppatore di videogiochi classe ’73, che si è fatto largo nel mondo dell’animazione nipponica a inizio millennio con le sue prime pellicole – dimostrando quanto l’elettronica di consumo abbia dato una voce per esprimersi anche a realtà molto piccole – e che ha infranto record su record con il suo film più riuscito, proprio dopo Your Name avesse iniziato una parabola discendente. E invece poi arriva Suzume, e ha dentro tutto il meglio del cinema di Shinkai e tutto quello che di lui si è detto e scritto in questi anni. Sì, compresa l’annosa faccenda “dell’erede di Miyazaki”.
La prima parte di questo testo è tutta senza spoiler, tranquilli. Solo alla fine ci sarà una sezione dedicata a quel certo gatto lì e al suo significato. Ma niente paura, la recintiamo per bene.
Dicevamo: l’avventura di Suzume, studentessa diciassettene che vive nel Kyushu, a sud del Giappone, e del misterioso ragazzo in cui si imbatte, Sōta, attraversa fisicamente l’arcipelago nipponico e metaforicamente tutto il curriculum di Shinkai. Del resto, c’è un motivo: proprio girando il Paese per cercare il materiale che gli serviva per i film precedenti, il regista ha deciso di incentrare su un viaggio simile la sua nuova storia.
C’è il tema cardine di tutte le sue opere, la distanza fisica, che può o non può diventare anche emotiva (a volte le due cose sono inversamente proporzionali), tra due personaggi. C’è l’iperrealismo di fondali e spaccati di vita presi da immagini vere, che si tratti di una stazione della JR, di un vagone dello Shinkansen, di un hostess bar gestito da una madre di famiglia o degli onnipresenti corvi giganti, che stanno a Shinkai un po’ come le colombe stanno a John Woo.
C’è la commedia che poi assume toni drammatici, le gaffe e un velocissimo pinocchio-sediolina, un amore che non puoi fermare, anche prima di esser riusciti a dargli un nome. L’epica di due giovani che – ancora una volta – si trovano invischiati in un qualcosa molto più grande di loro, davanti a un ostacolo apparentemente insuperabile.
Certo, l’esistenza di un mondo altro è un presupposto narrativo gettonatissimo in manga e anime giapponesi – tanto da diventare un genere a sé, l‘isekai, cioè “mondo diverso” – l’incontro con un fascinoso sconosciuto che ricorda tanto un mago Howl senza il suo castello errante, le trasformazioni fisiche, il senso di un qualcosa di primordiale, che si sprigiona dalla natura, sono un cartello lampeggiante enorme con su scritto MIYAZAKI-HAYAO.
Shinkai, che per anni in tanti hanno definito “il nuovo Miyazaki” – titolo che in Giappone è in perenne attesa di nuovi candidati, mentre il diretto interessato continua a fare film – sa benissimo che il successo che ha oggi, i numeroni di Your Name, il riconoscimento internazionale e il fatto stesso di avercela, una platea globale per i suoi lavori, è frutto della sua bravura quanto del terreno preparato negli anni dallo Studio Ghibli. Se esiste, al di fuori del Giappone, un certo tipo di pubblico non di nicchia che apprezza gli Shinkai e gli Hosoda, è perché è stato allenato al bello dai capolavori di Miyazaki e Takahata.
E allora Makoto Shinkai la cosa la prende di petto, decidendo di citare a spron battuto, senza alcun indugio, il sensei Miyazaki. Ambientando il setting iniziale nella prefettura omonima e riempiendo Suzume di strizzate d’occhio (e d’orecchio: a quel pezzo mi stavano venendo giù i lacrimoni, per tanti motivi diversi). E lo stesso vale per un altro mostro sacro come Hideaki Anno, anch’egli omaggiato più volte, con alcune soluzioni impreviste quanto piacevoli.
Sembrano già tanti strati per una torta che in fondo dura solo due ore, e non sono neanche tutti. Perché nel crescendo di Suzume, la cui vicenda diventa come detto man mano più epica e drammatica, ci sono anche altri due elementi fondamentali: la mitologia (e la storia) giapponese e un certo fattore che era stato uno dei motivi dell’enorme successo di Your Name in patria, nel 2016. Ma se non avete visto ancora Suzume, dovete fermarvi qui. Andate a vederlo – merita, non si fosse capito – e poi tornate.
Se invece il film l’avete già visto, con me!
E dunque. Sia la cometa Tiamat di Your Name che l’idea di Weathering with You e la sua Tokyo coperta d’acqua erano figlie del devastante terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011. Il trionfo al botteghino di Your Name si spiega anche e soprattutto per il grande momento catartico che questa storia d’amore che sfida una calamità ha rappresentato per un Paese intero, cinque anni dopo il sisma. Suzume, con quell’imbarcazione rovesciata su un tetto nelle scene iniziali, mette subito in chiaro che la metabolizzazione di quel trauma è ancora in corso, e la conduce a conclusione. Riportando la protagonista e chi la segue, pubblico incluso, proprio nel Tōhoku, nel luogo in cui la Suzume bambina ha perso la madre a causa del maremoto, e chiudendo il tutto in un loop commovente.
Non solo. È stato il Verme a provocare il grande terremoto del Kantō, cento anni esatti fa: qui la minaccia, per quanto assume i tratti di un mostro alla Miyazaki/Anno, è fin troppo reale. È la natura, la terra inquieta su cui sorge il Giappone, qualcosa che viene ricondotto a immagini molto più concrete e dolorose (la terra contaminata portata via dai camion, le case rase al suolo dal mare…) rispetto alla metafora della cometa.
E questo era semplice e universale come concetto, ok. Un pelo (letteralmente) meno afferrabile era il discorso del gatto Daijin, dei quasi ghostbusteriani chiuditori di porte (tojishi) e di quelle pietre sigillo. Daijin, per iniziare, vuol dire “divinità”… ma anche “ministro”. L’altra pietra divenuta gatto, il felino nero che si vede alla fine, si chiama Sadaijin, cioè “ministro di sinistra”. Ricordate il fatto che le due pietre puntellavano il verme in due punti dell’arcipelago, per impedirgli di fare capolino? Ecco.
In un’intervista Shinkai ha infatti precisato che il gatto bianco si sarebbe dovuto chiamare per questo motivo Udaijin, cioè il “ministro di destra”, ma ha tolto la U per non far capire troppo presto al pubblico la funzione del micio. Quelli dei due ministri, Udaijin e Sadaijin, erano incarichi prestigiosissimi nel Giappone imperiale dei periodi Nara e Heian.
Il loro ruolo nel film si sposa con l’altro significato, “divinità”, e i colori bianco e nero ricordano una complementarietà da yin e yang delle due entità. Come spiegato in questo video, ciò significa che non sono divinità buone o cattive. Sono e basta, e quanto può sembrare negativo magari non lo è. Ad esempio, l’intervento di Sadaijin fa dire quelle cose brutte alla zia di Suzume… ma portando alla luce delle cose che ha pensato davvero. Sarebbe in pratica l’ennesima volta in cui, proprio come fa la stessa Suzume con i suoi sentimenti quando decide di attraversare quella porta, Shinkai ricorda al pubblico giapponese (ma non solo) che i sentimenti è meglio buttarli fuori in ogni caso, piuttosto che tenerseli dentro.
Quanto al comportamento capriccioso e imprevedibile di Daijin, Shinkai ha spiegato che è dovuto innanzitutto proprio al fatto che rappresenta la natura, che non ragiona come gli umani, e semplicemente fa quello che fa. Mettiamoci che Daijin non vuole tornare a fare il fermaporte di pietra per un altro secolo, e perciò molla la patata bollente a Sōta. E poi c’è il suo rapporto con la protagonista: i complimenti di Suzume lo fanno stare bene, anche fisicamente, perché una divinità senza nessuno che l’apprezza non vale niente.
Per questo, dopo che ha guidato Suzume e l’uomo-seggiola Sōta nei luoghi in cui si spalancano le porte, Daijin si sacrifica: Suzume lo odia per la sorte di Sōta, e senza l’affetto della ragazza la creatura torna ad essere un micetto muto e spelacchiato. E allora meglio tornare al suo ruolo, dopo questa lunga sgambata per il Giappone, e tornare a fare la pietra ferma-verme-gigante-quasi-un-Angelo-di-Evangelion-o-Colui-che-cammina-nella-notte-di-Princess-Mononoke.
E allora tutto torna al suo posto, si incontrano di nuovo nei titoli di coda gli amici di questo lungo viaggio, e Suzume e Sōta possono rivedersi. Magari nella discesa dove si sono incrociati per la prima volta. Non è la scalinata di Your Name, ma va bene lo stesso: per aprire la porta del cuore, in fondo, basta trovare il coraggio di girare la chiave giusta.