Devo ammettere che la recensione di STILL: La storia di Michael J. Fox, il documentario prodotto da Apple TV+ su uno degli attori più amati degli anni ottanta e novanta, da oltre trent’anni affetto dal morbo di Parkinson, mi metteva abbastanza a disagio. Voglio dire, se il documentario fosse stato brutto, con quale cuore avrei potuto parlarne male visto il coraggio e la forza che sono serviti a Fox per parteciparvi in prima persona, mettendosi a nudo e mostrandoci la sua difficilissima vita di tutti i giorni? E questo senza tenere conto dell’affetto che mi lega a un attore che ha interpretato alcune pellicole non solamente bellissime, ma pure legate in maniera profonda alla mia infanzia, alla mia adolescenza, alla mia formazione e alla mia cultura? Insomma, quello che mi frenava è che avevo paura di non poter mantenere il distacco necessario per valutare l’opera in quanto tale, senza proiettarci sopra un trasporto emotivo. Poi, guardandola, ho capito che non era importante. Sì, il mio giudizio su STILL è influenzato dall’affetto e dalla stima, artistica e umana, che provo per Michael J. Fox. E sì, va bene così, perché non si può stabilire il valore di un documentario del genere, che racconta una storia del genere e con un protagonista del genere, semplicemente sul “come”. È il cosa la materia più importante.
Però, prima di andare avanti, di questo “come” parliamone. In termini molto semplici, l’opera ha tre tronconi narrativi che si alternano: il primo è la ricostruzione della vita di Michael, realizzata attraverso una certosina e maniacale selezione dei suoi film, delle sue serie televisive e delle sue apparizioni pubbliche, tagliate e sminuzzate per creare un racconto non solo coerente ma anche fluido e straordinariamente naturale, al punto che viene difficile credere che sia principalmente materiale d’archivio selezionato. Delle brevissimi ricostruzioni ci sono (con un attore ripreso sempre di spalle al posto di Michael) ma il documentario ci ricorre con estrema parsimonia in qualche transizione, e solamente in quei casi dove il regista e i suoi montatori non sono riusciti a trovare un giusto attimo della vita di Michael J. Fox ripreso dalle telecamere.
Questa parte del documentario è ben concepita, meravigliosamente eseguita e sapientemente montata (anche se dispiace un poco che, per dire, The Frighteners trovi così poco spazio, essendo forse l’ultima pellicola di alto livello interpretata dall’attore) ma è anche, e di gran lunga, la meno importante. Il secondo troncone è composto da una lunga intervista, condotta nell’arco di parecchio tempo, a Fox stesso, nella sua attuale condizione di salute. L’ultima parte sono delle brevi riprese che ci mostrano la sua vita privata, i suoi momenti di terapia e quelli con la famiglia.
Ve lo dico prima: nonostante STILL non sia un’opera che cerca i toni pietosi e il dramma, questi attimi non sono semplicissimi da guardare, specie se a Michael J. Fox avete voluto anche solamente un poco di bene. Il protagonista della trilogia di Ritorno al futuro, infatti, parla della sua malattia e delle sue prospettive di vita con una spietata franchezza (ma anche con un grande senso dell’umorismo e una dolente leggerezza) e questa cosa non può lasciare indifferenti, come non lasciano indifferenti i momenti delle giornate dell’attore, catturati dall’obiettivo di una telecamera che riesce a essere, allo stesso tempo, discreta e indiscreta.
Oggi su Apple TV+ STILL: la storia di Michael J. Fox pic.twitter.com/37mZjFW3Zd
— Screenweek (@Screenweek) May 12, 2023
Eppure, qualcosa manca. E strano a dirsi visto che fino a questo momento vi ho detto che il documentario è molto onesto, ma io ho l’impressione che sia la verità a mancare. Cerco di spiegarmi: Fox parla a cuore aperto, dice le cose come stanno, ironizza sulla sua vita e sulla sua condizione ma lo fa solo nei suoi termini. Per quanto il regista Davis Guggenheim si sforzi di provocarlo con domande anche sgradevoli o difficili, Michael J. Fox resta saldamente all’interno di quella narrazione personale che ha costruito sin da quando ha deciso di raccontare al mondo della sua condizione e di diventare un attivista per la ricerca e un esempio da seguire (al punto che nel documentario dirà, in un momento di scoramento: “Io sono Michael J. Fox, sono un esempio”, ottenendo come risposta dal suo fisioterapista: “forse qualche giorno puoi essere meno Michael J. Fox…”).
E il problema del documentario è tutto qui: Michael J. Fox è sempre troppo Michael J. Fox per essere “reale”. Sia chiaro, soffre e si deve confrontare tutti i giorni con una malattia terribile, e questa cosa si vede, ma l’attore ne parla pochissimo, al punto che il regista gli dice: “Ti ho intervistato per ore e non mi hai mai parlato del dolore che provi”. Michael svia la domanda, come ne svia molte altre. In sostanza, il modo in cui Fox racconta la sua malattia è esattamente la maniera in cui è facile immaginare che la affronterebbero Alex P. Keaton, Marty McFly, Brantley Foster/Carlton Whitfield o Mike Flaherty. È bello, è di grande esempio e ispirazione e sono sicuro che aiuti molte persone, ma è anche vero fino in fondo? Ora, forse la colpa non è solo di Michael, forse una parte del problema deriva anche dalla formazione di Guggenheim, che come documentarista si è sempre messo al servizio di una narrazione stabilita a monte (ricordiamo Una scomoda verità, tratto dal libro di Al Gore e vincitore di un Oscar e i molti video promozionali sulla vita del presidente Joe Biden), resta il fatto che il più grande merito di STILL non è tanto il racconto di come l’uomo Michael J. Fox affronti il Parkinson, quanto più il fatto di averci fatto ricordare il perché il mondo ha sempre amato l’attore Michael J. Fox e lo amerà per sempre.