Il cinema di Marco Bellocchio è una sfida incessante alla Storia, una ribellione ai suoi dogmi e alle interpretazioni univoche degli eventi. In tal senso, è curioso che il soggetto di Rapito – ovvero il rapimento di Edgardo Mortara da parte del Vaticano nel 1858 – abbia suscitato anche l’interesse di Steven Spielberg, che stava pianificando di adattare il libro The Kidnapping of Edgardo Mortara di David Kertzer prima di arenarsi davanti alla ricerca del protagonista. Forse uno sguardo straniero non avrebbe potuto cogliere tutte le implicazioni storiche della vicenda, e ne avrebbe dato una lettura più lineare, focalizzata sul caso in sé. Non lo sapremo mai con certezza, eppure l’impressione è proprio questa.
Bellocchio, dal canto suo, sa che il rapimento del bambino è stato lo specchio di un’epoca, e lo usa come traccia per narrare una fondamentale transizione storica. I fatti, peraltro, acquisirono una grande eco internazionale: nella Bologna del 1858, ancora soggetta allo Stato Pontificio, la famiglia ebrea dei Mortara è costretta a rinunciare al piccolo Edgardo (Enea Sala) perché una domestica lo battezzò di nascosto quando aveva pochi mesi. Secondo la legge papale, un bimbo battezzato non può essere cresciuto da una famiglia non cristiana, quindi Edgardo – che adesso ha sei anni – viene prelevato dalla sua casa contro il volere dei genitori, e portato a Roma. Lo scandalo fa il giro del mondo, ma gli sforzi del padre Momolo (Fausto Russo Alesi) e della madre Marianna (Barbara Ronchi) sono vani: papa Pio IX (Paolo Pierobon) non ha intenzione di rinunciare a una giovane anima così faticosamente conquistata.
Rapito è un’ennesima lezione di laicità da parte del più grande regista italiano vivente, come lo erano L’ora di religione e Bella addormentata. Crescere atei in un paese che dà per scontata l’appartenenza alla religione cattolica (e dove fin troppe decisioni politiche sono influenzate dal Vaticano) equivale a sentirsi stranieri in terra straniera: una sensazione con cui Bellocchio combatte da sempre, fin da quando inveiva contro i valori borghesi imposti dalle istituzioni, agli albori della sua carriera. La storia di Edgardo Mortara coagula in sé tutta l’arroganza del potere, certo, ma riflette anche il caos interiore che tormenta gli stessi fedeli, disorientati da come quel potere viene esercitato in sede religiosa. Edgardo nasce ebreo, viene cresciuto come tale, ma l’imposizione di una fede aliena gli lacera il cuore; fino a che punto la sua anima è stata realmente conquistata? Il copione di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli gioca sull’ambiguità, lasciando emergere nelle circostanze più drammatiche – soprattutto con Edgardo adulto, interpretato da Leonardo Maltese – le spinte di un inconscio che non ha mai accettato la benevolenza del carnefice.
Un viaggio nelle tenebre dell’inconscio sembrano anche le inquadrature più cupe di Rapito, quando il bambino viene condotto a Roma nottetempo lungo i canali, o giunge nella camerata della Casa dei Catecumeni dove riceverà l’indottrinamento cattolico. La fotografia di Francesco Di Giacomo valorizza i bagliori luminosi con grande eleganza, mentre Edgardo resta immerso nell’oscurità dei suoi pensieri e della sua fede straziata. È qui che, nella libera ricostruzione di Bellocchio, la sua mente acerba ma brillante cerca di riconciliare le due religioni, schiodando quel Cristo che “gli ebrei hanno messo in croce”, come gli ha detto il prete. Torna qui il peculiare sguardo di Bellocchio sulla Storia, di cui – per citare una sua intervista recente – non accetta “l’ineluttabilità”.
Il cinema è il mezzo per cambiarla, o quantomeno per reimmaginarla, come ha appena fatto Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire. Bellocchio ci aveva già abituato a tali deviazioni storiche (pensiamo a Buongiorno notte, ma in parte anche Vincere), ed è bello sognare che Edgardo abbia partecipato alla sommossa contro il papa, incitando i manifestanti a gettarne il cadavere nel Tevere. Questa ribellione del cineasta diventa però un limite quando cerca di chiudere la vicenda di Rapito, inanellando troppi finali e scivolando in un paio di confronti forse didascalici, come quello con il fratello bersagliere non credente – quindi suo opposto e simbolo di laicità – il giorno della breccia di Porta Pia.
Non ne risulta intaccata, però, la sua capacità di dare potere alle immagini, né il suo disgusto verso un’egemonia religiosa che disumanizza gli individui e colonizza gli intelletti. Anzi, Bellocchio affronta il caso Edgardo Mortara come sineddoche di un cambiamento epocale: il declino dello Stato Pontificio, il suo progressivo arretramento geografico e politico, l’insofferenza dei sudditi verso un’istituzione che pretende di governare tanto sulla cosa pubblica quanto sulle coscienze. Una riflessione, la sua, che mette in relazione l’individuale e l’universale, il singolo e il contesto in cui vive, perché rileggere la Storia non può mai essere un processo lineare. Sono troppe le implicazioni che comporta, e talvolta in esse cogliamo i germogli del nostro presente. Bellocchio ci ricorda che anche il passato, come la contemporaneità, è un campo da indagare e problematizzare.