I 70 anni di Pierce Brosnan non sono un momento qualsiasi, rappresentano l’occasione per salutare un attore che ha saputo ritagliarsi uno spazio particolare. Di fatto, a dispetto del suo essere irlandese doc, rappresenta l’ultimo depositario di quel British style che una volta dominava la produzione cinematografica d’Oltremanica. Brosnan ha sempre detestato il personaggio che gli ha dato la maggior fama internazionale: James Bond. Ma se i film sono stati visti da molti come giganteschi baracconi, prima del rinnovamento dell’era Craig, la realtà è che lui è stato uno 007 semplicemente stratosferico.
007 pareva avviato ormai sul viale del tramonto dopo la fine del Regno di Roger Moore, nel 1986. Timothy Dalton era stato un Bond molto diverso dal classico, Vendetta Privata e Zona Pericolo andarono molto male, ci furono anche strascichi legali. Per sei anni la spia più famosa di tutti i tempi scomparve dai radar. Pierce Brosnan era già stato contattato come prima scelta dopo l’abbandono di Moore, ma era impegnato in una serie televisiva. Alto, elegante, dal fisico atletico ma non eccessivamente massiccio, sguardo gelido, parve a tutti perfetto per riportare 007 ad una dimensione più connessa a quella iniziale di Sean Connery. Lui stesso, dichiarò di volersi ispirare al Bondo di Missione Goldfinger. GoldenEye del 1995 ancora oggi è indicato come uno dei migliori film di 007 di sempre, questo in virtù di una sceneggiatura firmata da Bruce Feinstein e Jeffrey Caine, che rese il personaggio duplice, così come la trama in cui l’ex amico e compagno 006, alias Alec Trevelyan, interpretato da un bravissimo Sean Bean, si rivelava essere la nemesi.
Ci si ricollegava ai topoi della narrazione bondiana, con un’altra organizzazione criminale, gadget tecnologici, donne belle e pericolose, e poi azione, inseguimenti. Nel film si celebrava la rivoluzione geopolitica, con la dissoluzione dell’URSS, il caos nell’est Europa. Pierce Brosnan fu un James Bond complesso, per certi versi incredibilmente efficiente e deciso, il maschio alfa che tornava alla ribalta, ma anche vulnerabile e istintivo. Era un Bon elegante, a tratti veramente vanesio, capace di un grandissimo coraggio, di una determinazione totale nel perseguire la sua missione, ma anche di una freddezza e spietatezza che solo Sean Connery aveva rappresentato in modo così eccezionale. Ian Fleming lo aveva immaginato così: capace di offrirti un drink e poi di spararti in un vicolo con la stessa nonchalance.
Di fatto GoldenEye salvò la saga mentre con Il Domani non Muore Mai, con un cast che comprendeva Jonathan Pryce, Michelle Yeoh, Teri Hatcher, ci si connetté alla revanche cinese, ai nuovi rischi della tecnologia che, in quel fine di anni ‘90 con l’impero della New Economy, cominciavano a delinearsi. Incassi leggermente in calo critica per nulla soddisfatta, si pensò già al tramonto di questo nuovo ciclo.
Ma per fortuna arriva Il Mondo non Basta, allo scoccare di fine millennio. Non si è mai parlato abbastanza di questo film, uno dei più innovativi Bond movies di sempre, soprattutto per aver avuto come nemesi Sophie Marcuea nei panni di Elektra King. Il cast comprendeva un mefistofelico Robert Carlyle, una Denise Richards non molto valorizzata e naturalmente Judy Dench. Pierce Brosnan fu perfetto nel rendere ancora più imprevedibile, ancora più umano e di conseguenza impressionante nella sua metamorfosi James Bond. Pochissime volte nella saga si era visto il super agente così coinvolto sentimentalmente da una donna che per astuzia, determinazione e abilità, non aveva assolutamente nulla da invidiargli. Messo alle strette, viene salvato in extremis dal compianto Robbie Coltraine. Poi c’è il confronto finale con Elektra, lui che le dà una via d’uscita, lei che non crede che gli sparerà e Bond che la fredda senza esitazione al motto di “io non manco mai”. Poi però fa seguire un malinconico gesto di accarezzare il corpo di quella donna spietata.
In quel piccolo momento, Brosnan fa diventare James Bond un essere diverso dell’avventuriero che ama e a volte uccide con noncuranza, è uno 007 molto più empatico, meno egoriferito eppure senza tentennamenti.
Poi arriva il 2002, l’atto finale, quel La Morte può Attendere che da certi punti di vista rappresenta l’ultimo omaggio al vecchio stile della saga fatto di gadget impossibili, magnificenza da kolossal, quella certa atmosfera da adventure impossibile. Pieno di omaggi al primo film di James Bond, a quel Licenza di Uccidere che aveva lanciato Sean Connery, ha uno dei cast più indovinati di sempre con Halle Berry, Rosamund Pike e un Toby Stephens carismatico quasi come Brosnan, nei panni di un villain che questa volta arriva dalla Corea del Nord. In un film in cui trionfavano effetti speciali per l’epoca assolutamente innovativi, con una componente sessuale preponderante, Pierce Brosnan riuscì ancora una volta a contenere l’eccesso che rischiava di travolgere il percorso che aveva compiuto il suo personaggio. Anche qui James Bond fu tutto tranne che un uomo perfetto, nella dimensione di agente che poteva essere comunque messo in difficoltà, spinto al limite e anche ingannato in virtù del suo essere vulnerabile alla bellezza femminile.
Ultimo walzer per Brosnan, grandissimo successo al botteghino, che lascia 007 senza rimpianti. Poi sarebbe arrivata l’era di Daniel Craig, radicalmente diverso, eppure è innegabile che egli abbia raccolto il testimone che l’attore irlandese gli aveva lasciato, quell’idea di una spia non più isolata in una sorta di fortezza. Con Brosnan 007 non fu più simbolo perfetto di una mascolinità irraggiungibile, ma un uomo, un uomo e basta, con i suoi pregi ed i suoi difetti. A guardarli oggi i film di Pierce Brosnan non sono invecchiati magari molto bene, lui invece, che oggi compie settant’anni, attore di grande classe, è invecchiato benissimo, così come il suo James Bond, capace di arrivare indenne nel XXI secolo.