Molto Rumore per Nulla compie trent’anni, lo fa forte di un’eredità vibrante, sovente sottovalutata, che riguarda il film che non solo permise a Kenneth Branagh di ricominciare in modo massiccio la sua trasposizione cinematografica dell’universo shakespeariano, ma allo stesso di rinnovarsi in modo evidente. Con un cast meraviglioso in cui brillava Denzel Washington come prova tangibile di un’inclusività che precorreva i tempi, visivamente magnifico e accattivante, questo film rimane una gemma degli anni ‘90 assolutamente da riscoprire.
Kenneth Branagh si prese sulle spalle un compito non da niente, presentando al 46° Festival di Cannes un film di cui avevo curato sceneggiatura e produzione, rispettando significati, drammaticità, personaggi e quanto più fedelmente si potesse l’iter narrativo di quell’opera, a metà tra tragedia e risata.
Molto Rumore per Nulla era stata concepita tra il 1598 e 1599, quando il grande autore cesellò un testo che poi avrebbe conosciuto una grandissima fortuna, in virtù di una costruzione narrativa semplicemente geniale, di una caratterizzazione dei personaggi accattivante e molto profonda. Kenneth Branagh rispettò tutto questo, in particolare mise in scena quella che era a tutti gli effetti una guerra dei sessi e delle apparenze, in un microcosmo in cui il contrasto tra le diverse estrazioni sociali, così come Shakespeare aveva concepito, risaltava e dava un’enorme ricchezza e varietà all’insieme. Il film, con un sontuoso gioco delle parti e degli equivoci, rispettava la volontà del grande autore di creare un omaggio alla commedia greca, quella in particolare che aveva fatto di Plauto e Terenzio due pilastri.
L’ambientazione italiana, presso la magnifica tenuta di Vicchiomaggio, a Greve in Chianti, appena fuori Firenze, non fu tanto casuale, quanto piuttosto l’ennesima prova di quanto Branagh, uno che Shakespeare lo conosce con un’intimità spaventosa, volesse anche connettersi alla commedia dell’arte, ma in generale all’amore per il Bel Paese che Shakespeare aveva sempre manifestato. Il risultato fu un trionfo di critica e pubblico per quanto poi a livello di premi e riconoscimenti, il film (che oggi dominerebbe in tantissime categorie) dovette accontentarsi di un riconoscimento soprattutto per la sua caratura estetica.
La magnifica fotografia di Roger Lanser valorizzava in modo perfetto una location a dir poco suggestiva, che fece del film anche uno dei motivi per cui proprio la Toscana, da quegli anni ‘90 in poi, sarebbe ritornata in auge, forte di un amore cinematografico d’oltreoceano e oltremanica straripante.
Le scenografie di Tim Harvey e Martin Childs, i bellissimi costumi di Phyllis Dalton, completarono la base su cui Kenneth Branagh fece muovere un cast tra i più indovinati che si ricordino di quel decennio. Oltre all’allora consorte Emma Thompson nei panni di Beatrice, vi erano poi numerose giovani divi dell’epoca come Keanu Reeves, Robert Sean Leonard, una giovanissima Kate Beckinsale, contornati da veterani del calibro di Richard Briers, Imelda Staunton, Brian Blessed un divo istrionico come Michael Keaton e poi lui, Denzel Washington. La trama vedeva un intrigo ordito dal malvagio fratello bastardo del principe Pedro d’Aragona (Washington), il serpentino Juan (Keanu Reeves), che approfittava del matrimonio tra il Conte Claudio (Leonard) e Hero (Beckinsale) per seminare zizzania. Tra balli in maschera, feste, giardini e sole, Kenneth Branagh riuscì ad un tempo sia a conservare il romanticismo del testo, sia a calarlo in una dimensione scevra da un eccessivo glamour. I suoi personaggi sudano, piangono, sono coperti di ricchi vestiti così come di polvere, sono soprattutto uomini e donne, non creature votate alla perfezione. Tutto questo emerge da dialoghi frizzanti, elegantissimi, connessi alla capacità di sposare ad un tempo ironia e un’analisi approfondita sul concetto di sentimento, connesso all’ordine sociale.
All’epoca vi furono se non polemiche, comunque una dubbiosa curiosità nel vedere come Denzel Washington, simbolo dell’America hollywoodiana che si rinnovava, sarebbe riuscito a calarsi nei panni di un personaggio così particolare come don Pedro. Il risultato fu abbagliante, il divo americano esibì un carisma, un sex appeal, una presenza scenica semplicemente folgoranti, quasi oscurò il resto del cast, se si fa eccezione naturalmente per Kenneth Branagh. Le sue schermaglie con Emma Thompson, sono il sale di un racconto piacevolissimo, ma anche intrigante per come affronta temi come l’emancipazione femminile, la reputazione come una spada di Damocle che è pronta a cadere sulla testa del gentil sesso, in un film che alla fin fine, ci ricorda come nei tempi andati, la condizione femminile forse quella di un’inferiorità generalizzata. L’eleganza dell’insieme evita di diventare monocorde grazie a Michael Keaton e alle sue guardie letteralmente fuori di testa, matti del villaggio che però si rivelano, proprio nella loro capacità di essere portatori di caos creativo, la soluzione del problema. Molto Rumore per Nulla giunse dopo l’Enrico V, fu seguito dal deludente Frankenstein di Merry Shelley, dal magnifico Othello con Fishburne, poi sarebbero venuti Riccardo III, il trionfo con Amleto. Ma è fuor di dubbio che, assieme alla filmografia di James Ivory di quegli anni, Kenneth Branagh, soprattutto grazie a questo film, riuscì poi a generare quel rinnovamento del racconto inglese, che avrebbe avuto il suo apice nel trionfo di Shakespeare in Love, per quanto infinitamente inferiore ai risultati da loro ottenuti. Allo stesso tempo, dimostrò che non vi era immobilità nella rappresentazione shakespeariana, che oggi, con ucronie derivative come Bridgerton o il MacBeth di Coen, continua ad essere protagonista.