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La Sirenetta, recensione del film di Rob Marshall

Pubblicato il 22 maggio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

C’è un’epigrafe, all’inizio de La Sirenetta, che rimanda all’omonima fiaba di Hans Christian Andersen: “Ma una sirena non ha lacrime” recita la frase introduttiva, “e quindi soffre molto di più”. Inutile dire che il film di Rob Marshall non è un adattamento diretto della fiaba, bensì un remake del classico animato che nel 1989 rilanciò i Walt Disney Animation Studios dopo anni di crisi. I toni sono sostanzialmente gli stessi, e poco hanno a che fare con quell’angosciosa citazione, o con il finale tragico del testo originale. È interessante, però, il fatto che questi remake cerchino spesso di legittimarsi attraverso un ritorno alle radici letterarie, come se fossero più adeguate agli standard del cinema in live action. La Sirenetta procede sul medesimo solco, e il risultato non cambia: con la parziale esclusione de Il Libro della Giungla (film che ha davvero tentato di cambiare registro), tutti i remake puntano a riprodurre lo sguardo dei classici Disney, senza grossi mutamenti di atmosfera.

Il linguaggio dei disegni animati e quello del cinema dal vivo, però, non sono sempre sovrapponibili, come abbiamo visto spesso negli anni scorsi. Nonostante l’ibridazione fra reale e digitale che contraddistingue i blockbuster contemporanei, i film in live action restano appesantiti da un’idea di “verosimile” che l’animazione può tranquillamente ignorare, persino nel modo in cui caratterizza i personaggi. Prendiamo le famose “spalle” della principessa di turno, che sono sempre animali o oggetti antropomorfi: laddove i disegni garantiscono una fortissima personality animation, il cinema dal vivo – pur avvalendosi della CGI, che è un’altra forma di animazione – ha l’obbligo di restare credibile, ancorato alla realtà. È anche qui che emergono i limiti di queste operazioni, ma non si può negare che ci sia una bella differenza tra La Sirenetta e Il Re Leone, giusto per citare il caso più clamoroso di inespressività ferina. Gli animali, qui, non sono protagonisti, bensì comprimari: per quanto il realismo di Sebastian (Daveed Diggs) e Flounder (Jacob Tremblay) possa non piacere, il loro ruolo resta subordinato agli attori umani, e le inquadrature in campo totale durante le canzoni ne attenuano l’effetto “improbabile”.

È un discorso banalissimo, ma necessario per un film come questo. Nel tradurre il classico animato in live action, un regista esperto come Rob Marshall fa scelte molto oculate nella costruzione delle inquadrature, anche grazie al fedele direttore della fotografia Dion Beebe, con cui lavora fin dai tempi di Chicago. Gli sfondi, ad esempio, sono più ricchi di dettagli, perché Marshall sa bene che il vuoto ha un peso specifico decisamente maggiore nel cinema dal vivo. Al contempo, concede più spazio ai primi piani dei personaggi umani rispetto a quanto accadeva nel film d’animazione, per valorizzarne le sfumature nel parlato e nei numeri musicali. La scena in cui Ursula (Melissa McCarthy) canta Poor Unfortunate Souls è esemplare, in tal senso.

La storia, insomma, è quella che ricordiamo: a cambiare è soprattutto il modo di narrarla. La sirena Ariel (Halle Bailey) è una delle figlie del Re Tritone (Javier Bardem), che governa i sette mari e considera gli umani una piaga per la natura. Ariel è però affascinata dal mondo di superficie, e trascorre molto tempo con il pesciolino Flounder in una caverna sottomarina dove conserva moltissimi cimeli della terraferma. Quando salva il Principe Eric (Jonah Hauer-King) da un naufragio, la ragazza ne rimane affascinata, perché il giovane incarna tutto ciò che la incuriosisce del mondo in superficie. Un patto con la malvagia Ursula, sorella reietta di Tritone, le permette di diventare umana, ma al terribile prezzo di perdere la voce. Aiutata dal granchio Sebastian, fedele servitore di suo padre, Ariel ha ora solo tre giorni di tempo per conquistare Eric, ed evitare così le ritorsioni della Strega del Mare.

Sul piano dell’intreccio, la novità più significativa è rappresentata dalla Regina Carlotta (Noma Dumezweni), madre adottiva del principe. Non si tratta però di un capriccio, né di un espediente per diluire la trama: l’aggiunta di Carlotta permette infatti di stabilire un parallelo fra Ariel ed Eric, entrambi soffocati da genitori iperprotettivi che ne scoraggiano le pulsioni avventurose (lo stesso Eric, infatti, è affascinato dalle acque inesplorate dei mari, come Ariel dalla terraferma). Si conferma qui una tendenza ricorrente in questi remake, che consiste nell’attribuire maggior spessore a personaggi nati per essere archetipici, rendendo al contempo esplicito ciò che nell’originale era sottinteso. Rispetto a un Aladdin, però, La Sirenetta ha il merito di essere meno didascalico, meno artificioso nell’esposizione dei dialoghi. In fondo, la simmetria fra Ariel ed Eric non fa che arricchirne il rapporto, intavolando un dialogo fra i rispettivi sogni, desideri, impulsi. Mentre si rispecchiano l’una nell’altro, l’esigenza di quell’amore diviene più cristallina, perché si radica in valori concreti e riconoscibili dal pubblico.

È uno sviluppo curioso, figlio dei tempi che corrono. Laddove Hollywood tende sempre più a infantilizzare gli spettatori, Disney sa bene che questi remake parlano soprattutto agli adulti nostalgici, ed è per avvicinarsi a loro che le storie si fanno relativamente più complesse, i personaggi più tridimensionali. È anche vero che, proprio in quanto versione contemporanea delle fiabe, storie come questa si evolvono nel tempo, subendo l’influenza dello Zeitgeist in cui viviamo, del gusto e della sensibilità corrente: è normale che cambino, e che cambi anche la rappresentazione di alcuni personaggi. Per buona pace delle assurde polemiche che hanno circondato il suo casting, Halle Bailey era semplicemente la più adatta a trasporre Ariel in live action, al di là dell’etnia e di qualunque accusa su una supposta “inclusione forzata”. Basta ascoltarla quando si esibisce in Part of Your World per rendersene conto: la giovane attrice canta con l’anima fra le mani, dimostra di credere a ogni singola parola che pronuncia, e mette tutta sé stessa nella sua formidabile voce. Rob Marshall ha qui l’accortezza di soffermarsi sul primo piano di Ariel quel tanto che basta per scardinare la nostra resistenza e farci commuovere, proprio quando credevamo che un remake non potesse darci niente di più (o di diverso) rispetto all’originale.

A questo proposito, è chiaro che Marshall e lo sceneggiatore David Magee ci vanno coi piedi di piombo quando trattano gli aspetti più problematici della fiaba: il patto con Ursula, ad esempio, diventa quasi una forzatura della strega, mentre Ariel si rivela più attiva e padrona del suo destino in due snodi cruciali della trama. Anche il compositore Alan Menken è dovuto intervenire su due canzoni per adeguarle al punto di vista woke, seppur con modifiche impercettibili per chiunque non le ricordi a menadito. Se il testo di Baciala è cambiato pochissimo, la rimozione di un’intera strofa da Poor Unfortunate Souls dimostra come Hollywood non abbia gran fiducia nell’intelligenza del pubblico: nel 1989, nessuno avrebbe messo in dubbio che un’antagonista come Ursula potesse veicolare contenuti negativi nella sua canzone, proprio perché – in quanto “cattiva” – anche i bambini sanno che la strega si fa portatrice di valori controversi e di un punto di vista inaffidabile. Ora, invece, tutto dev’essere pulito e asettico, senza nulla di ambiguo.

Per fortuna la sua malvagità non viene giustificata con qualche trauma infantile, al contrario di altre produzioni simili: Ursula è semplicemente una carogna, com’è giusto che sia in una fiaba. L’interpretazione vivida e sopra le righe di Melissa McCarthy, peraltro, non solo riflette le origini del personaggio (creato a partire da drag queen come Divine), ma fa da contraltare alla performance misurata di Javier Bardem, fondamentale per rendere le sfumature emotive di Tritone nel rapporto con la figlia. Il fatto che attori del genere riescano a esprimersi anche sotto il trucco, i costumi e la CGI non è affatto scontato, e riflette l’ottima qualità del casting. Lo stesso Daveed Diggs è fenomenale, tanto nel parlato quanto nel cantato.

Gli sforzi di proporre una rilettura sensata, pur con i limiti endemici di queste operazioni, sono quindi ben tangibili. Anche le tre nuove canzoni – scritte da Menken con Lin-Manuel Miranda – sono collocate nei punti giusti, e spaziano dall’introspezione (Wild Uncharted Waters e For the First Time) alla simpatica boutade (il rap The Scuttlebutt di Awkwafina). Se La Sirenetta dà prova di saper pizzicare le corde più sensibili, è anche grazie a una visione ragionata dell’originale, di cui preserva il cuore senza però rinunciare a svilupparne i temi, i rapporti e le ambientazioni. Non è la fiaba di Andersen, non è propriamente il film del 1989, ma qualcosa di parzialmente autonomo che racconta una sua versione della storia.