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La Sirenetta, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 22 maggio 2023 di Roberto Recchioni

Prendetelo come un esperimento sociologico: cosa succede se mandi un maschio bianco di quarantanove anni, allergico alla nostalgia, non particolarmente amante dei “classici Disney” moderni e del tutto allergico alle versioni in live action di film animati, a vedere la nuova sfavillante iterazione cinematografica disneyana de La Sirenetta, la fiaba originalmente scritta da Hans Christian Andersen? Riuscirà questa cavia da laboratorio a mettere da parte tutti i suoi bias cognitivi e a scrivere una recensione equilibrata e quanto più obiettiva possibile? Oppure cederà alla sua natura e si lascerà trasportare dall’antipatia istintiva che prova per tali operazioni?
Lo stiamo per scoprire.

Prima di tutto, sgomberiamo il punto da una questione: il riscrivere le fiabe non è mai stato, non è e non sarà mai un problema. Anzi, a dirla tutta, lo abbiamo sempre fatto, sin da quando i racconti per bambini erano affidati alla tradizione orale e, a dirla tutta, il maggiore lavoro di riscrittura e ripulitura da temi scomodi lo hanno fatto i fratelli Grimm, che raccolsero, rielaborarono e resero “potabili” per il loro tempo le fiabe della tradizione tedesca, consegnandocene una versione che, con gli anni, si fece canone, ma che canone non era per nulla. Lo stesso discorso si può fare anche per Andersen che, nella sua produzione letteraria dedicati ai bambini, altro non fece che prendere racconti folkloristici danesi e li adattò per il contesto culturale e sociale a cui apparteneva. Quindi è mai stato un problema che la Disney abbia fatto lo stesso (e questo sin dai suoi esordi) con i suoi adattamenti animati di fiabe famose? La risposta è no: la casa di produzione di Burbank non ha fatto altro che adattare le fiabe alla sensibilità del tempo, per mantenerle vive. Seguendo questa logica, se non c’è mai stato nulla di irrispettoso nelle libertà che John Musker e Ron Clements (sceneggiatori e registi della prima versione animata a opera della Disney) si presero nel 1989 con il testo originale (che pienamente originale non era) di Andersen, non c’è nulla di irrispettoso nelle libertà che oggi si sono presi il regista Rob Marshall e David Magee (sceneggiatore), nell’adattamento in live action di quel film animato.

Sì, la vicenda è stata spostata ai Caraibi. Sì, lo spostamento geografico è stato fatto per giustificare Halle Bailey (un’attrice nera) nel ruolo di Ariel. Sì, Halle Bailey è stata scelta non solo perché brava (e brava lo è davvero) ma anche per mandare un messaggio chiaro di inclusività che pone il film pienamente nel soldo della sensibilità del tempo presente. Fermo restando che il messaggio di inclusività lo voleva mandare anche Andersen quando scrisse l’opera originale (anche se in quel caso il tema, per quanto fortemente metaforizzato, era l’omosessualità).

Stare a fare polemica su questo tema è, semplicemente, ridicolo. Quindi, passiamo oltre e parliamo di cose serie. Com’è il film? A dire il vero, non tanto male. Anzi, devo essere onesto, se fossi un bambino o una bambina, mi sarebbe piaciuto e anche molto perché ha un buon ritmo, un certo numero di scene d’azione, qualche bel momento musicale, molti personaggi buffi e divertenti, effetti visivi che, pure se non possono certo competere con Avatar e la sua via dell’acqua, non sono per nulla da buttare nella rappresentazione del mare e degli ambienti sottomarini. Sia chiaro, la mia avversione per gli adattamenti live action della Disney resta, ma una volta accettato il fatto che al pubblico piacciono, devo dire che questo – nel suo contesto – è uno di quelli che ho trovato meno fastidiosi in senso assoluto, perché Rob Marshall (il regista di Chicago e di vari altri successi ma anche de Il ritorno di Mary Poppins, purtroppo) omaggia senza strafare, mantiene un tocco leggero, non esagera mai nella messa in scena e mantiene quelle qualità di freschezza che aveva il cartone animato del 1989. A migliorare il tutto, un comparto musicale eccellente (ma quello era dato per scontato vista la bontà del materiale originale) e una Melissa McCarthy che si mangia ogni scena in cui appare (ma, anche quello, era abbastanza prevedibile dato il personaggio che interpreta, ovvero, la splendida e terribile Ursula). Meno bene l’omissione di una scena molto divertente e molto amata (quella in cucina, probabilmente omessa per non offendere la sensibilità vegana del nuovo pubblico di riferimento ma, anche qui, torniamo al discorso a monte: questi film devono vivere nel presente) e Javier Bardem nel ruolo di Tritone, che appare come (perdonate la battuta) un pesce fuor d’acqua e che per tutto il tempo sembra dire: “Una volta recitavo con i Coen!”. Il mio ultimo appunto riguarda la conclusione: visto che già il cartone animato del 1989 si era distanziato parecchio dal finale della fiaba originale e visto che questo adattamento si discosta in più punti rispetto al cartone animato, non si poteva andare fino in fondo e cambiare il fatto che, per quanto forte e indipendente, alla fine è Ariel quella che deve stravolgere la sua essenza più intima per poter stare accanto al suo principe? Non sarebbe stato un bel messaggio se, in questa versione targata 2023, fosse stato Eric a cambiare la sua natura per accompagnare Ariel nel suo mondo e non viceversa? Insomma, non si poteva avere una trasformazione in sirenetto per lui invece che in umana per lei? Ma forse è ancora chiedere troppo per qualcosa del genere e ci toccherà aspettare il remake del 2053.

Quindi, tornando all’esperimento sociale da cui siamo partiti, questo film mi è piaciuto sì o no? No, ma è colpa mia perché non faccio parte delle persone a cui il film è destinato. Se lo fossi, probabilmente mi sarei molto divertito e, probabilmente, lo avrei trovato anche di grande ispirazione. Detto questo, sono uscito dalla sala cantando “Under the sea” e qualcosa deve significare.

La Sirenetta arriverà nelle sale italiane il 24 maggio.