Poi succede che esce in sala questo benedetto live action de La Sirenetta e mia figlia mi chiede di andarlo a vedere. Si dà il caso che per lei – otto anni e mezzo, quasi nove – il film de La Sirenetta non è la pellicola di cui ogni singola nuova foto ha fatto gridare su Internet alle infanzie rovinate, tirare in ballo presunte dittature del politicamente corretto (l’espressione perfetta da spendere per farmi smettere di leggere o ascoltare qualcosa), struggersi dinnanzi a questa Disney malvagia che spreme le sue IP per guadagnare dei soldi (ma pensa).
No. Per lei, che di tutte queste polemiche non sa e quindi non gliene frega neanche un quarto di arricciaspiccia di nulla, il film de La Sirenetta è semplicemente il film de La Sirenetta. Cioè una versione dal vivo di un classico che le piace molto. Cioè un’altra occasione per rivedere/rivivere la stessa storia. Nota importante: ai bambini piace un casino rivedere a nastro le stesse storie, più e più volte, perché li fa sentire più sicuri. Se avete vissuto pure voi il supplizio di Sisifo delle repliche infinite di Paw Patrol, già saprete.
Come scriveva Roberto Recchioni nella sua recensione – su questi stessi lidi; recensione che fondamentalmente condivido nelle argomentazioni – è una faccenda principalmente di target. E non sempre è semplice per tutti, specie per chi target lo era 34 anni fa, comprendere che non lo è più. Farsene una ragione. Rispondere a quei “Non è la mia Ariel” che probabilmente non deve esserlo. La tua è là, e nessuno te la tocca: questa è un’altra, simile ma non uguale.
E non voglio sembrare cinico, eh, ma a una certa mi sono reso conto anch’io che lo Spider-Man in carne e ossa del cinema sarebbe rimasto per sempre un ragazzetto. Che io e Tobey Maguire siamo invecchiati allo stesso modo, ma a Hollywood serviva un Peter Parker perennemente giovane, reboot dopo reboot, per il pubblico con meno primavere addosso. Noi si invecchia, i tempi cambiano e le nuove generazioni fruiscono dei medesimi mondi immaginari che hanno fatto sognare noi, ma quello che sentiranno un giorno come proprio (background, retroterra pop, luogo felice dei ricordi) lo sanno solo loro.
E se a uno non interessa questa nuova versione, o qualunque altra nuova versione dei Classici? Amen. Non credo abbiano istituito la leva obbligatoria delle visioni dei live action Disney. Così come non credo neanche che mia figlia capirebbe mai che a tanti dà fastidio l’esistenza stessa di un film che ha come principali destinatari lei e quelli della sua età. Come glielo spieghi? Glielo spieghi? Ma no, meglio di no.
“Che te ne pare?”, le ho chiesto all’uscita. Mi ha risposto che il film è bello, la Sirenetta pure, e che Ariel canta pure qua benissimo. Nient’altro. Del colore della pelle della protagonista manco mezza parola. Non ieri, non le volte che ha visto il trailer, il poster, le foto. Mai. Lei vive del resto in una realtà scolastica che è già multietnica, non trova nulla di strano nel fatto che un film ad ambientazione caraibica in cui si balla come nell’originale sulle note di un brano di musica calypso abbia una sirena come Halle Bailey.
Il target, dicevamo: cosa vuole? La storia d’amore, le canzoni, le spalle buffe, Ursula stronza, l’arricciaspiccia, il giro in barca nella laguna, il calesse, Ursula che muore male, il lieto fine. Se c’è tutto questo, non ha bisogno d’altro. Non gli interessa altro.
E pensando questa cosa mi sono un po’ rabbuiato, sulla via del ritorno, perché pensavo invece a quante porcherie razziste ho dovuto leggere per mesi su Internet, a proposito di un film che racconta una storia d’amore che – ma magari qualcuno non se n’era accorto – supera le distanze e le diffidenze tra mondi diversi, scritta da Andersen come metafora dell’isolamento sentimentale in cui si sentiva confinato egli stesso per la sua omosessualità. Cacchio, se c’è una storia a proposito della quale non dovrebbero essere spese parole a vanvera tipo l’inclusività fa più danni che altro (assicura Mimmolino80, maschio, bianco, etero) è questa.
Se poi mi chiedi com’è, oggettivamente, per me, questo live action de La Sirenetta, che vuoi che ti dica? È La Sirenetta, che già di suo non mi ha mai fatto impazzire – sempre preferito quella total conversion in salsa africana, con i medesimi ingredienti (zii stronzi e assetati di potere compresi), che era Il re leone – passata attraverso il colino dell’iper-realtà. Quella cosa per cui il pesce Flounder improvvisamente è, beh, un pesce. E quindi un pelo inquietante.
Siccome Rob Marshall non è esattamente l’ultimo dei pirla né in fatto di ambientazioni marine caraibiche, né tanto meno di storie in cui si canta e balla, questo La Sirenetta è un musical in cui Ariel comunica bene l’ingenuità e i sogni del personaggio, e manda in frantumi i cristalli – un po’ troppo alto?, mi ha chiesto una maschera del cinema, ma ho fatto fatica a capire le sue parole, piallato dal canto della protagonista – Ursula è la solita, adorabilmente malvagia, viola villanzone Ursula, il Sebastian di Mahmood funziona, rendendo alcune scene – come quella del giro in barca in laguna – divertenti.
Un paio di ambientazioni sono venute particolarmente bene (come la coreografia di In fondo al mar) e i fondali marini, tutti realizzati in digitale, sono onesti. Altro? Qualche dettaglio in più per arrotondare la storia, qualcosa in meno (niente Can Can col cuoco armato di coltelli!), ma nel complesso la storia quella è.
C’è questa scena alla fine in cui le parole del re dei mari Tritone e la carrellata che segue, con un controcampo rispetto al cartoon, sembrano rivolgersi proprio a quelli delle polemiche di cui sopra, dicendogli Va’ che siamo tutti uguali, pinne e tutto. Ma arrivato lì mi ero concentrato soprattutto sul saluto del re a sua figlia, perché c’è questa cosa che quando diventi padre si ribalta la prospettiva e tendi a immedesimarti nei genitori dei protagonisti più spesso che in questi ultimi, e così facendo capisci davvero alcune delle loro motivazioni.
Ci ho messo un po’, ma alla fine ho capito cosa deve aver provato mio padre quando mi portava a vedere negli anni 80 tutti quei film che io adoravo ma che a lui non piacevano, troppo lontani dai suoi gusti. Perché era comunque felice di andare al cinema visto che, beh, era una di quelle cose padre-figlio. Con l’arruolabilità sopraggiunta di mio fratello, padre-figli. Sono ricordi splendidi, che spero un giorno anche mia figlia possa portarsi dietro.
E insomma, sì, quella cosa di Tritone e del lasciar andare la prole per la sua strada (Il re leone avrebbe ripreso ed esaltato pure quella), difficile per quanto può essere difficile, ha trovato terreno facile nel qui presente, tanto che ho immaginato per un attimo, solo per un attimo, Javier Bardem che cantava commosso Lauretta mia.
Giuro.