Un dialogo immaginario per raccontare Alien e Aliens a qualcuno che Alien e Aliens non li ha mai visti…

Un dialogo immaginario per raccontare Alien e Aliens a qualcuno che Alien e Aliens non li ha mai visti…

Di Roberto Recchioni
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Ciao, come mai in questi giorni vedo un sacco di immagini di Alien e Aliens sui social?

Ehi, ciao, era un pezzo che non venivi a trovarmi! Comunque, per rispondere alla tua domanda, perché il 26 aprile si celebra quello che chiamano “Alien Day” (la data è stata scelta arbitrariamente dai fan della saga e fa riferimento alla denominazione in codice del pianeta Acheron).

Ma siamo a maggio…

Sì, non badarci. Per scelta distributiva, Alien e Aliens da noi tornano in sala a maggio, il 29, 30 e 31. Non ti fare domande ma sii felice del fatto di poter vedere di nuovo questi film.

A dire il vero, io non li ho mai visti…

Ancora meglio, allora! Ora potrai farlo al meglio.

No, è che i film con i mostri sono tutti uguali…

Mi permetto di non concordare con questa affermazione sia in linea generale che nel caso specifico. Specie nel caso specifico.

Perché, che hanno di speciale questi due film?

Più o meno tutto. Ma andiamo con ordine, e partiamo dal primo, ok?

Ok… ma non farla troppo lunga.

Non te lo posso promettere, sia perché ci sono un sacco di cose da dire, sia perché adoro il suono della mia voce. Ma, dicevamo, Alien

Ecco, sì.

Il film esce nella sale nel 1979 per la regia di Ridley Scott, la storia è concepita da Dan O’Bannon e Ronald Shusett mentre lo script è del solo O’Bannon (anche se le cose non stanno davvero così, come vedremo). La storia ci dice che l’idea per il film viene a O’Bannon mentre è impegnato, assieme a John Carpenter, nella stesura della sceneggiatura di Dark Star, il primo film del futuro regista di Halloween (e di mille altri film seminali). Il film, ispirandosi a racconti come Alle montagne della follia di H. P. Lovecraft e Caleidoscopio di Bradbury e a film come La cosa da un altro mondo (di cui Carpenter farà poi un remake vero e proprio con La cosa), porta in scena la storia di un gruppo di astronauti alle prese con una presenza aliena che infesta la loro astronave e che ha le sembianze di… un pallone da basket, più o meno. Dark Star (diventato a sua volta, e con gli anni, un classico della fantascienza) è un film a tratti molto comico che però, in nuce, ha già tutti i meccanismi che poi contraddistingueranno la porzione centrale e finale di Alien. Comunque sia, prima del film con Scott, O’Bannon viene coinvolto da Jodorowsky (il visionario fumettista e regista) nello sviluppo di una prima versione di Dune (che non vedrà mai la luce). Lo sceneggiatore, per seguire il progetto, si trasferisce in Francia e, grazie al regista di El topo, entra in contatto con un mondo di artisti che non conosceva e che, in quel periodo, sulle pagine della rivista Metal Hurlant, stavano cambiando la scena della fantascienza: gente del calibro di Foss, Bilal, Caza, Druillet e, ovviamente, Moebius. Ancora più importante, O’Bannon entra in contatto con gli inquietanti lavori di un semisconosciuto pittore e scultore svizzero. H. R. Giger.
Abortito il progetto di Dune, O’Bannon torna negli Stati Uniti e scrive un breve trattamento di una ventina di pagine, intitolato Memory (che poi diventerà la scena di apertura di Alien), ma non sa bene che farsene visto che in testa ha più una serie di immagini che un’idea vera e propria. Torna quindi con il pensiero a Dark Star e alle sue ispirazioni originali, le mescola con Cuore di tenebra di Conrad e, coinvolgendo Ronald Shusett, ne realizza una versione che definisce come “Lo Squalo ma nello spazio”. Inizialmente O’Bannon pensa di presentare la storia alla factory di Corman, per farne un piccolo film di serie B su cui avere però il pieno controllo. Seguendo però il consiglio di un amico, prova a puntare più in alto e si rivolge alla Brandywine, una compagnia di produzione da poco creata da Walter Hill (il regista di capolavori come I guerrieri della notte e 48 ore) e da due soci: Gordon Carroll e David Giler. La società opziona lo script ma, prima di presentarlo alla 20th Century Fox, decide di “dargli un’aggiustata”. Qui iniziano una serie di problemi perché Hill e Giller apportano notevoli cambiamenti al lavoro di O’Bannon e Shusett, introducendo (per esempio) la figura dell’androide Ash e tutta la trama connessa, riscrivendo la maggior parte dei dialoghi per dar loro maggiore naturalezza e, in senso assoluto, mettendo più a fuoco il senso del film. O’Bannon non è contento e si rifiuta di riconoscere l’apporto dei due produttori (che infatti, ancora oggi, non vengono indicati ufficialmente come co-sceneggiatori). Dopo un numero piuttosto alto di riscritture successive (otto secondo alcuni, undici secondo altri), il film approda finalmente in Fox, che non ci crede per nulla ma decide di girarlo lo stesso perché Star Wars è stato un successone e vogliono mettersi in scia della moda del momento: il problema è che l’unico script che hanno in mano con dentro delle astronavi è, appunto, quello di Alien, che con Star Wars non ha praticamente nulla in comune. Comunque sia, la produzione parte con un modesto budget di quattro milioni e mezzo. Ora bisogna trovare il regista: O’Bannon si propone ma viene rifiutato. La 20th vorrebbe che lo dirigesse Hill, ma questa volta è lui a rifiutare. Si vagliano altri grossi nomi ma nessuno sembra interessato a prendere sul serio un film dell’orrore ambientato nello spazio. È così che lo script finisce in mano a un giovane autore inglese proveniente dal mondo degli spot commerciali che si è fatto notare da Hollywood con un bell’esordio cinematografico intitolato I duellanti. Il regista è, ovviamente, Ridley Scott.

E il resto, come si suol dire, viene da sé…

Mica tanto. Scott all’epoca è praticamente sconosciuto. Di lui si sa solo che è fondamentalmente un esteta di quelli che stanno iniziando ad andare di moda grazie alla nascente mania per i videoclip musicali e che è molto, molto, bravo a realizzare da solo gli storyboard delle sue opere. Ma nessuno è conoscenza del fatto che è anche un genio visionario e una persona estremamente puntigliosa ed esigente. La produzione parte subito in salita, con una serie di problemi che riguardano, in primo luogo, l’aspetto di quell’alieno che dà il titolo al film. Inizialmente, il compito di creare lo Xenomorfo viene affidato a Ron Cobb, che già si sta occupando di tutti i mezzi meccanici, ma Cobb (un genio nelle cose che sa fare bene, ma non brillantissimo nelle cose in cui non è a suo agio), restituisce a Scott una creatura buffa e grottesca, che non solo non fa paura ma che ricorda da vicino il pallone da basket di Dark Star. Non va bene. Non va assolutamente bene. Ci vuole qualcosa di speciale. E O’Bannon si ricorda di quell’artista svizzero che lo aveva tanto disturbato nel suo soggiorno europeo: Giger. Il dio della biomeccanica viene contatto e, in non molto tempo, fornisce una serie di illustrazioni, quadri e sculture, che vengono poi passati a Carlo Rambaldi (l’italico genio degli effetti speciali tradizionali). Rambaldi prende il materiale di Giger, gli da una forma coerente e trova la maniera di trasportarlo in tre dimensioni, dando forma al “mostro” che oggi conosciamo. Anche Moebius trova posto nel reparto artistico, finendo per disegnare le tute spaziali e alcuni ambienti interni della Nostromo, l’astronave del film. Giger, di nuovo, viene anche coinvolto direttamente nello sviluppo delle scenografie e l’artista si presenta sul set con stucco, gesso, cartapesta e un mucchio di ossa di animali, che integra direttamente nel suo lavoro. Sembra una follia e lo è, ma il risultato finale è senza eguali. Anche le scelte di Scott per il cast sono anomale e mettono la Fox in seria apprensione: nessuna star (a parte Tom Skerritt che ha un minimo di notorietà, ma che non è protagonista e che a schermo non ci rimane molto) e attori di un’età più alta della media per un film di fantascienza dell’epoca. Ma tutto, nella mente di Scott, ha un pieno senso e, come si vedrà poi, ha ragione davvero. Il non avere dei ragazzini a interpretare i “camionisti dello spazio” immaginati da Scott rende il film più concreto e realistico, e il non avere nessuna star impedisce allo spettatore di avere dei punti fermi sullo schermo: tutti possono morire in qualsiasi momento e non si sa chi sarà il vero protagonista della storia fino a che non lo vedremo emergere, lentamente, a causa degli eventi. Inoltre, Scott aggiunge un “quarto atto” alla pellicola, una lunga scena, successiva alla distruzione della Nostromo, che gli permette di far brillare quella insospettabile protagonista, finalmente al centro della scena e da sola. Le riprese del film vengono fatte a Londra, con tempi strettissimi e poco budget e Scott è letteralmente costretto a inventare soluzioni inedite per riuscire a portare a casa il girato. Poi arriva la fase del montaggio, che è piuttosto lunga e complessa, con il regista chiuso in moviola per lunghe settimane e intento a cercare di distillare tensione pura in ogni momento del film, la musica (di Jerry Goldsmith), al sonorizzazione degli effetti e i meravigliosi titoli di testa realizzati dalla R/Greenberg Associates. Il film ha una prima proiezione di prova a St.Louise, che va malissimo a causa di problemi con l’audio. La seconda, a Dallas, fa urlare di terrore il pubblico. Ma la Fox non ci crede ancora e manda Alien in sala con una distribuzione limitata. Solo il passaparola e il lento e crescente successo del film lo trasformano in un successo commerciale che la Fox nega, per non pagare le percentuali stabilite alla Brandywine di Walter Hill. Un paio di cause legali dopo, viene acclarato che sì, Alien è stato un successo e che sì, se ne dovrà fare un sequel praticamente da contratto.

Alien 2

No. Alien 2 – Sulla terra è un film italiano, diretto da Ciro Ippolito e Biagio Proietti, uscito nel 1980, per sfruttare la fama del film originale di Scott e il fatto che non si può mettere sotto copyright la parola “alien”. Il film racconta la storia di un gruppo di speleologi che, in dei tunnel claustrofobici, se la devono vedere con delle uova aliene e le creature in esse contenute. Nota ironica: molti anni dopo, l’italico Alien 2 viene sostanzialmente plagiato da Neil Marshall per il il suo (bellissimo) The Descent.

Non ci sto capendo niente.

Perdonami, era una nota di colore. Semplicemente, il seguito di Alien non si può chiamare Alien 2 perché già esiste un Alien 2 quando la produzione prende avvio. Quindi, il seguito di Alien si intitola Aliens, al plurale. Che poi è anche un buon modo per far capire subito la differenza più importante tra la pellicola originale e il suo sequel: nel primo film c’era un solo Xenomorfo, nel secondo una moltitudine perché… questa volta è guerra!

Immagino che, dopo il successo del primo, questa volta la Fox ci creda e stanzi un budget imponente…

E ti sbagli. All’epoca le cose andavano diversamente…

In che senso?

Che nei primi anni ottanta, il concetto di “sequel” era diverso da quello che è oggi. All’epoca, un film era ritenuto un’opera e non un prodotto. E, come opera, aveva un valore artistico in quanto tale. Ulteriori sfruttamenti di quella storia o quell’idea rappresentavano una specie di “inquinamento”. Praticamente solo Il padrino – Parte II e la saga di Star Wars facevano eccezione rispetto a questo modo di vedere le cose. Persino i sequel di Rocky erano visti come “robetta”. I sequel, all’epoca, erano solamente una maniera per battere il ferro fino a che era caldo e fare soldi facili. Erano concepiti come prodotti di seconda fascia, con budget ridotti e registi di minor prestigio. Pensa solo ai sequel di due capolavori come Lo Squalo o L’Esorcista. Non è un caso che, nei primi anni ottanta, la maggior parte dei sequel erano film horror, già intesi dal mondo culturale come un prodotto scadente anche nella loro forma originale. E Alien, a conti fatti, era un horror, no? Oggi le cose sono diverse e le proprietà intellettuali vengono concepite sin dall’inizio nella speranza che creino un più largo ecosistema narrativo ma, all’epoca, ogni successivo sfruttamento di un’opera originale (che fossero altri film, o fumetti, romanzi, videogiochi, giochi di ruolo o da tavola derivati) era visto come un qualcosa di secondario e di scarso valore.

Scusa, ma Aliens non è diretto da James Cameron?

Appunto. Cameron, all’epoca, era un tuttofare che lavorava per Roger Corman e aveva girato un imbarazzante sequel che gli era anche stato tolto di mano dal produttore italiano (Piraña paura, pellicola su pesci piranha geneticamente modificati e in grado di volare) e un minuscolo film di fantascienza che aveva avuto uno straordinario, ma del tutto imprevisto, successo: Terminator.

Quindi, non credevano in lui?

Certo che sì. Credevano che fosse un bravo mestierante capace di ricoprire molti ruoli diversi sul set e di confezionare un film di fantascienza con pochi soldi, stando nei tempi e nel budget.

Avevano torto?

No, avevano ragione. Ma Cameron era molto di più anche se, forse, all’epoca non lo sapeva nemmeno lui. Tanto è vero che accettò di scrivere due sequel nello stesso momento: Aliens e Rambo II (non è un caso che le pellicole si somiglino così tanto per plot, sviluppi narrativi e scene). Durante la stesura del sequel del film di Ridley Scott (che, intanto, aveva fatto sapere di non volerci avere nulla a che fare) però, qualcosa cambiò e Cameron si appassionò al progetto, al punto che oltre allo script portò tutta una serie di fantastiche illustrazioni (realizzate da lui) per far capire con chiarezza la sua visione. A quel punto, era quasi inevitabile che finisse anche a dirigerlo. Sempre con un budget limitato e poco tempo a disposizione. Anche in questo caso, la Fox ebbe una fortuna sfacciata nell’incappare (per la seconda volta di fila sullo stesso franchise) in uno dei maggiori talenti visivi del ventesimo (e ventunesimo, ormai) secolo. Cameron mise tutto sé stesso nel film, portando non solo la sua fidata crew di tecnici e attori che con lui avevano già lavorato su Terminator, ma mettendo al servizio del film tutte le sue competenze di illustratore, storyboard artist e progettista, al punto che molti dei migliori effetti del film sono stati progettati da Cameron stesso. Il risultato di questo impegno è un film apparentemente enorme, spettacolare, pieno di azione, di grandi battute e personaggi magnifici, un film che definisce praticamente da solo il genere dell’action sci-fi e che entra, al pari del predecessore ma per motivi radicalmente diversi, nella storia del cinema.

Che hanno di tanto differente le due pellicole?

Mettiamola così: Alien è un film ipnotico, lento, tutto giocato sull’atmosfera e sulla tensione, sul non mostrato (tranne quando mostra e lo fa con una violenza e una “pornografia” dell’orrore senza uguali), su un approccio cerebrale e intellettuale all’orrore e su una serie di rimandi culturali altissimi. È un film pieno di riflessioni stratificate e metaforizzate sul sesso, la riproduzione, la malattia, il concepimento e il corpo in generale ed è un film pieno di arte e artisti che mai erano apparsi prima sul grande schermo. È un film respingente e sensuale al tempo stesso, che fa di questo straordinario contrasto la sua ragion d’essere principale. È, ancora, un film degli anni settanta, per quanto tardi, complesso e poco accondiscendente nei confronti del suo pubblico.
Aliens, d’altro canto, è un film pienamente calato nel suo decennio, gli anni ottanta. Abbandona gli intellettualismi e li sostituisce con metafore sulla maternità e sulla guerra del Vietnam piuttosto facilone, ma eccelle nello spettacolo, nell’azione, nella creazioni di personaggi iconici che è facilissimo amare, e nella assoluta spettacolarità. Sono entrambi capolavori ma sono praticamente antitetici come visione e approccio. L’unica cosa che accomuna Scott a Cameron è il fatto di essere due esteti eccezionali ma, anche in quel caso, se Scott ha nutrito il suo occhio nelle grandi gallerie d’arte moderna, Cameron lo ha fatto nei drive-in della sua giovinezza.

Ma, alla fine, i due film appartengono allo stesso franchise, no? Sono strettamente legati, non fosse altro per la storia dei protagonisti…

Insomma. Così come Cameron ha cambiato la mitologia ideata da Scott per renderla sua (inserendo la figura di una regina-madre aliena che getta alle ortiche il complesso e sinistro discorso sulla piramide della riproduzione intesa da Scott e Giger), così Scott, negli anni e con pellicole successive (Prometheus e Alien: Covenant) ha fatto di tutto per negare e cancellare l’apporto di Cameron, mettendolo, sostanzialmente, fuori dal suo canone narrativo. Così oggi non è semplice dire che Aliens sia il “vero” sequel di Alien, alla stessa maniera in cui è discutibile dire che Alien 3 di Fincher sia il “vero” sequel di Aliens.
Diciamo che, a differenza di tanti altri franchise, Alien è un qualcosa che si reinventa da capo ogni volta che un autore lo affronta e lo interpreta.

Quindi, come li devo vedere questi due film?

Come quello che sono: due capolavori del cinema mondiale che hanno alcuni tratti e personaggi in comune ma che nascono dal coinvolgimento di artisti molto diversi che hanno lavorato in completa autonomia. Ma questo non è poi così importante, no? Quello che conta è che…

“Che…?”

Che possiamo rivederli al cinema! Corri a comprare i biglietti, dannazione!

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