Sulle Ali dell’Onore su Prime Video, sta passando forse un po’ troppo in sordina, probabilmente per la scarsa attrattiva che ad oggi caratterizza il kolossal bellico ed i film storici. Ma è un vero peccato, perché il film di J. D. Dillard, con il tanto discusso ultimamente Jonathan Majors e Glen Powell, ispirato alla vera storia di due piloti durante la guerra di Corea, merita la vostra attenzione. Questo in virtù di un’ottima prova del cast, una buona estetica, della capacità di andare oltre i cliché, il dejà vu, pur senza rinunciare a strizzare l’occhio al meglio della tradizione hollywoodiana classica, ma senza esagerare.
La guerra di Corea rimane ancora oggi uno dei conflitti meno studiati, noti e soprattutto meno utilizzati dalla settima arte, quando invece è stato un momento spartiacque non solo dal punto di vista militare o geopolitico, ma anche per quello che riguarda la società americana. L’integrazione, l’immissione di un numero sempre più alto di soldati appartenenti alle minoranze, afroamericani in particolare, diventò sempre più comune. Di fatto anticipò la fine della segregazione e Sulle Ali dell’Onore diretto da J. D. Dillard, parla soprattutto di questo momento specifico, lo fa con una storia vera, abbracciando una narrazione a metà tra biopic e rappresentazione hollywoodiana classica. Tratto da “Devotion: An Epic Story of Heroism, Friendship, and Sacrifice” di Adam Makos, ha come protagonisti Jesse Brown (Jonathan Majors) e Tom Hudner (Glenn Powell) due piloti in forza alla marina statunitense che in quegli anni si dibatteva tra passato e futuro. Si usavano alcuni degli ultimi e migliori aerei ad elica di sempre, come il Corsair, ma intanto ecco l’avvento dei motori a reazione che il blocco sovietico metteva sul campo. Al contrario di altre operazioni cinematografiche simili degli ultimi tempi, quelle sull’America del passato da rileggere, a livello estetico il film non è troppo glamour o troppo pastellato. Questo grazie alla fotografia di Erik Messerschmidt (come cognome un caccia tedesco, guarda che combinazione), che sa dosare i toni più freddi, esaltare la regia di Dillard nei segmenti più intimi e assieme elevare le sequenze di volo. Sulle Ali dell’Onore è quindi molto distante dalla retorica e dal gigantismo di un Pearl Harbor ma anche dall’essenza meramente adrenalinica di un Top Gun. Rimane soprattutto il racconto di due persone, due piloti, due amici e di ciò che accadde loro in una delle guerre più strane e sconosciute del XX secolo.
Il tema del razzismo è tornato preponderante in America, ma certo, viene da chiedersi se sia qualcosa che il pubblico veramente vuole, oppure un’imposizione del mercato per cercare di creare e allo stesso tempo cavalcare una specifica onda. Sulle Ali dell’Onore però affronta il tema in modo un po’ più creativo, più sensibile e meno stereotipato. Questo soprattutto grazie ad una grande interpretazione di Jonathan Majors, talmente intenso, reale, umano, che risulta quasi fin troppo dominante. Powell forse se ne accorge e bene o male ha l’intuizione di stare sotto le righe, fargli da spalla, dimostrandosi molto meno legnoso del solito, nei panni di quello che fu il miglior amico di Brown. Anche lui pilota di talento, è però di mentalità più aperta, in un’America che divide ancora per il colore della pelle, che non sa bene come trattare quelli come Brown. La trama disegnata da Jake Crane e Jonathan A. Stewart segue il classico iter di conoscenza, approfondimento dei legami, addestramento e infine la missione, quella missione che segnò il destino di entrambi. Hollywood ha sempre amato gli aerei e i piloti, basti pensare a Gli angeli dell’inferno di Hughes, Ali di Wellman, La squadriglia dell’aurora di Hawks, questo solo per i primi anni del primo dopoguerra. Poi sono venuti classici come i Lunghi Giorni delle Aquile, Midway, fino a Top Gun, Pearl Harbour e il pessimo Red Tails, da cui Dillard riesce però a smarcarsi. Questo perché Sulle Ali dell’Onore è girato senza eccesso di retorica o demonizzazione del nemico, anche perché il vero nemico è l’America bianca, razzista e intollerante. Per fortuna Dillard sa come dosare spettacolarità bellica con profondità, caratterizzare i due protagonisti andando oltre la superficialità, senza farsi prendere la mano dall’esaltazione politica e anche dalla lusinga del glamour, che piloti ed aerei li ha sempre inseguiti.
Sulle Ali dell’Onore ci dà anche una buona ricostruzione storica dell’epoca, sempre a metà tra elogio dei tempi leggendari della Hollywood del dopoguerra e sguardo realistico sulla società arretrata di allora.
Vi è anche l’omaggio a Liz Taylor (Serinda Swan) che incontrò i due a Cannes, quando era sulla cresta dell’onda. Rimane tuttavia il dubbio che vi sia una descrizione leggermente troppo manieristica quando si affronta il tema del razzismo in Europa, visto che sappiamo che la Francia degli anni ’50 non poteva essere assolutamente paragonata agli States di allora. Da questo punto di vista pecca un po’ di superficialità ma compensa però con la grande chimica del cast. Soprattutto riesce a guardare alla dimensione privata, familiare, dando modo di comprendere l’ansia, la paura, la solitudine, che chi era a casa dovette sopportare. Il tutto illuminando in modo cinicamente reale la realtà quotidiana di un afroamericano di allora, così come la divisa potesse giocare un ruolo fondamentale nel livellare il razzismo.
Storicamente, è innegabile tale elemento nella storia statunitense e non solo, perché grazie a quella, la vita di Brown e di tanti altri diventò qualcosa di diverso e di più importante, smisero di essere dei neri come gli altri soprattutto dentro la loro testa. Fatto ancora più interessante, Sulle Ali dell’Onore fa comprendere come lassù, con una cloche in mano, l’errore umano valga tanto quanto un colpo ben indirizzato del nemico. Detto questo, il film non è un capolavoro, ma è un lungometraggio onesto, coerente, facile da seguire e da comprendere, che nel finale sa andare oltre la trappola della retorica patriottica più spicciola. Dal punto di vista semantico e per evoluzione, sarebbe da prendere ad esempio da tanti altri, che ambiscono ad una sorta di licenza morale con cui compensare la scarsa caratura artistica.