Il sottotitolo italiano di November non lascia spazio ad ambiguità: con l’esclusione del prologo, il film di Cédric Jimenez si focalizza sui cinque giorni successivi agli attentati del 13 novembre 2015, quando un commando armato vicino all’autoproclamato Stato Islamico uccise 130 persone, la maggior parte delle quali al teatro Bataclan, durante un concerto degli Eagles of Death Metal. Dal 14 al 18 novembre, seguiamo le indagini della sottodirezione antiterrorismo per trovare i superstiti del commando, tra cui il presunto organizzatore Abdelhamid Abaaoud.
I nomi degli agenti sono stati cambiati, pur traendo ispirazione da persone reali: a capo della ricerca troviamo Héloïse (Sandrine Kiberlain), ma l’azione è in mano al Commissario Fred (Jean Dujardin) e alla Capitana Inès Moreau (Anaïs Demoustier), che si districano fra indizi, pedinamenti e false piste, mentre il Presidente Holland dichiara lo stato di emergenza e chiude le frontiere. La svolta coincide con la testimonianza di Samia (Lyna Khoudri), giovane musulmana la cui cugina è legata ai terroristi fuggitivi.
Inevitabile pensare a Zero Dark Thirty come riferimento di November, ma la differenza è che qui l’indagine si concentra in soli cinque giorni, e Jimenez imposta il film come un thriller dal ritmo serrato, senza mai deviare dalla missione. L’effetto è coinvolgente, ma anche straniante: il contesto praticamente non esiste (a parte l’incipit ad Atene, quando Abaaoud sfugge a una retata della polizia internazionale), e lo stesso discorso vale per le più banali esigenze umane dei protagonisti, qui ritratti solo nell’adempimento del loro dovere. In tal senso, gli unici accenni sono la telefonata di Fred al figlio e la breve scena con gli agenti che dormono in ufficio – peraltro incentrata sulle comparse, non sui personaggi principali.
Insomma, Jimenez glorifica la risposta delle istituzioni dopo un attacco al cuore della Francia, ma con il piglio ruvido e diretto del nuovo cinema di spionaggio, tutto giocato sull’essenzialità comunicativa e sullo sguardo pseudo-documentaristico: abbondano infatti le riprese a spalla, spesso molto ravvicinate, per dare al racconto un senso di urgenza e realismo. L’essenzialità è però eccessiva, dato che il ruolo di ogni singolo personaggio non è sempre chiaro, e nemmeno l’identità delle organizzazioni o agenzie coinvolte. Per imbastire una narrazione incalzante, November taglia tutto ciò che potrebbe rallentarne il passo: scarsissimo inquadramento storico-politico, poco interesse per le implicazioni morali e personali delle indagini (solo Inès vive un repentino conflitto interiore per il trattamento riservato a Samia), e nessuno spazio al trauma collettivo.
Il regista sceglie quindi un punto di vista molto specifico, interno alle sale di controllo. Per la stessa ragione, decide saggiamente di non ricostruire gli attacchi, che restano fuori campo e vengono solo evocati nella parte iniziale. Se tale approccio ripaga in termini di azione, ritmo e perizia tecnica, culminando in una sequenza davvero spaventosa nonostante la sua relativa staticità, al contempo November rischia di apparire arido, esageratamente calcolato, e in definitiva un po’ troppo celebrativo nei confronti del potere, di cui non problematizza mai l’operato. Il contesto geopolitico e sociale avrebbe meritato maggiore attenzione, al fine di comprendere la genesi dell’orrore ed evitare che si ripeta (per buona pace della retorica battuta finale). Ma non è questo lo scopo di Jimenez: ciò che gli preme non è suscitare dubbi o porsi domande, bensì usare il cinema come strumento di esaltazione, corroborando la fiducia nella reattività del “sistema”. Un’istituzione senza volto, più che i singoli individui, è la vera protagonista del film.