Forse è vero che talvolta sarebbe meglio dimenticare, come suggeriva provocatoriamente Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Quando un conflitto è ancora fresco – e trent’anni durano un soffio, inutile negarlo – a sopravvivere non sono soltanto i reduci militari e civili, ma tutto il livore che la guerra porta con sé. In molti casi, chi ha combattuto le guerre jugoslave degli anni Novanta è ancora giovane, e lo stesso vale per chi ha perso la famiglia, vedendo distrutta la propria casa e la propria città. Il rancore personale per quanto successo, ben più intenso di qualunque attrito ideologico, sussiste tutt’oggi anche fra concittadini, persino fra vicini di casa: una realtà piuttosto comune a Sarajevo, melting pot etnico-religioso fra i più eterogenei d’Europa.
Non è la città di Teona Strugar Mitevska, nativa invece di Skopje, ma la regista macedone vede la capitale bosniaca come una sintesi di tutti i conflitti socio-culturali dei Balcani, e quindi come teatro ideale per la sua storia (peraltro ispirata a una vicenda realmente accaduta). La protagonista de L’appuntamento è Asja (Jelena Kordić Kuret), quarantacinquenne che partecipa a uno speed date per accontentare le richieste di sua madre, o almeno così dice. Accoppiata con il quasi coetaneo Zoran (Adnan Omerović), la donna ne resta piacevolmente intrigata, ma durante la prima attività succede qualcosa di strano: mentre rispondono a una serie di domande per conoscersi meglio, diviene sempre più chiaro che Zoran nasconde un segreto, e più che l’amore sta cercando il perdono.
Accade allora che lo speed date si trasformi in una grande elaborazione del lutto, tanto personale quanto collettiva. L’appuntamento – in originale The Happiest Man in the World, titolo che restituisce meglio la natura paradossale del film – compatta un processo estremamente complesso tra le quattro mura di un hotel brutalista, eredità del passato jugoslavo, intersecandolo con i riti surreali dell’evento romantico: una trovata davvero brillante, estranea a qualunque retorica melodrammatica, che trasfigura una circostanza “frivola” in un passaggio cruciale nelle vite dei personaggi.
Teona Strugar Mitevska lo gestisce quasi come se fosse una pièce teatrale, con atti ben distinti che corrispondono alle varie attività dello speed date, e momenti che si avvicinano alle dinamiche del teatro-danza. Anche l’apice drammatico della storia funziona come una messa in scena, un rito catartico di purificazione. Se la cineasta individua la chiave di questo processo nel rapporto tra i corpi, sfiorati nel corteggiamento o straziati in una spaventosa allucinazione bellica, Asja può solo esplodere in un ballo da estasi dionisiaca tra gli adolescenti di Sarajevo: ovvero, quella generazione che non ha vissuto la guerra, e che è destinata a seppellirne gli antichi rancori. Torna in mente la scena finale de Il corsetto dell’imperatrice, con la sua danza di libertà dalle convenzioni e dallo sguardo maschile. Asja balla tra le donne e gli uomini del futuro, mentre cerca di scrollarsi dalle spalle il peso del passato.
Il perdono passa attraverso una rievocazione dell’orrore che, nel riavvolgere il tempo su sé stesso, arriva fino all’infanzia. Il gioco da bambini tra Asja e Zoran – due volti meravigliosi, ricchi di ombre e spigoli che hanno tanto da dire – li riporta al grado zero del loro rapporto, quando ancora possono relazionarsi in quanto persone, e non come vittima e carnefice. Senza dimenticare i loro trascorsi, certo, ma con la consapevolezza di aver finalmente riconosciuto la tragica umanità che li accomuna.