Sono passati quarantacinque anni da quando il sol dell’avvenire sorgeva alle spalle di Nanni Moretti in Ecce bombo, e finalmente il cinema gli offre la chiave per guardare nella direzione giusta. Sia chiaro, non è sempre facile rapportarsi a una poetica così fortemente radicata nell’immaginario post-sessantottino, nei suoi ideali e nelle sue disillusioni. Per le generazioni successive, figlie di quella sinistra che credeva ancora nel sogno comunista, Moretti incarna un retaggio che non siamo certi di voler abbracciare: è il regista molto amato dai genitori, immortalato in bianco e nero sulle VHS dell’Unità, citato periodicamente da Blob e dagli amici della bolla progressista; ma è anche il volto dei girotondi nei primi anni Duemila, simbolo di un impegno politico che diffida del “sistema”, e che da adolescenti abbiamo visto lanciare invettive contro i leader sia della destra sia della sinistra. Lo abbiamo sempre guardato con un misto di timore, ironia e reverenza, come se ci sentissimo giudicati da lui perché non facevamo abbastanza, o perché ci piacevano film che lui non avrebbe approvato.
Ecco, per quanto lo stesso Moretti non lo consideri il suo testamento artistico, Il sol dell’avvenire rappresenta la summa ideale di tutte quelle sensazioni che ci hanno legati al suo cinema. Non a caso, è anche il film con cui Moretti torna a mettere in scena sé stesso, come aveva fatto in Caro diario e Aprile. Il protagonista è proprio lui, o quantomeno un suo doppio: Giovanni, cineasta romano, sta girando un film ambientato durante la Rivoluzione Ungherese del 1956, quando un circo di Budapest arriva in Italia su invito del Partito Comunista. Sua moglie Paola (Margherita Buy) è la produttrice insieme al francese Pierre (Mathieu Amalric), mentre Silvio Orlando e Barbora Bobulova interpretano due membri del Partito che accolgono gli artisti del circo. Le riprese vanno avanti, ma Giovanni non sa che Paola – impegnata anche sul set di un film d’azione – sta progettando di lasciarlo.
Se il confine tra arte e vita si assottiglia, le fissazioni e le idiosincrasie di Moretti tornano tutte di gran carriera, a partire dall’ossessione per le scarpe (la filippica contro le sabot e le pantofole), l’amore per i dolci (stavolta è il gelato) e le immancabili canzoni. Sono dettagli che hanno sempre avvicinato il suo cinema a una certa letteratura post-moderna, capace di elevare la banalità del quotidiano a oggetto di dibattito e riflessione; ma, allo stesso tempo, rendono buffo e familiare un regista che altrove può apparire quasi severo, sempre intento a esprimere giudizi sui modi e sui tempi che lo circondano. Siamo abituati alle sue opinioni contro la rappresentazione irresponsabile della violenza: in Caro diario se la prendeva con una recensione di Henry pioggia di sangue, mentre in Aprile stroncava addirittura Strange Days (clamorosa svista, a essere sinceri). Qui però la sua frustrazione si articola in modo più complesso, sfociando in una surreale, spassosa riflessione che coinvolge alcuni volti noti della sfera intellettuale italiana. È così che Moretti torna a farci da moralizzatore: noi che da quel tipo di “violenza” continuiamo a lasciarci intrattenere, ed esultiamo di fronte alla timida rinascita del cinema di genere italiano, non possiamo che sentirci in colpa.
Sarebbe facile archiviarlo come un vecchio che sbraita contro le nuvole, ma l’acutezza del suo sguardo è innegabile. Che si tratti di ironizzare sulle gelide strategie di Netflix (il film come “contenuto”, la standardizzazione globale del cinema…) o di criticare la glorificazione della violenza, Moretti riesce sempre a penetrare sotto pelle, sfidando gusti e tendenze del pubblico. Eppure, è anche disposto a mettere in discussione sé stesso, molto più che in passato: si vede nel rapporto con la moglie, dove sembra riconoscere quanto estenuanti e alienanti possano essere le sue idiosincrasie, che peraltro si riflettono nei due meta-film. Il cineasta riconosce i suoi limiti, si guarda allo specchio, si autocita con grazia (la coperta di Sogni d’oro), e vive persino un memento mori che ci fa quasi preoccupare. È la morte dell’autore, la morte del cinema?
No, per fortuna. Se già molti film hanno dedicato un necrologio alla Settima Arte, Moretti è di avviso diverso, nonostante tutto. Il cinema diviene qui una possibilità di rinascita, anzi, di riscrittura della Storia. Il disincanto post-sessantottino si trasforma finalmente in azione: corregge gli errori del PCI (reo di aver appoggiato l’intervento militare sovietico in Ungheria) e sceglie di camminare verso il sol dell’avvenire. Solo il cinema, arte popolare per eccellenza, ha il potere di farlo, o almeno di immaginarlo. Dopo due film coerenti ma sottotono, Moretti dimostra di saper “parlare alla testa e al cuore delle persone”, per citare il suo celebre comizio a piazza Navona nel 2002. Come quelle immagini, anche molte scene de Il sol dell’avvenire resteranno nel tempo: dal monologo su Breve film sull’uccidere di Kieślowski alla splendida scena con Voglio vederti danzare di Battiato, Moretti ci ricorda che lui il cinema lo sa ancora fare. Ed è con la macchina da presa, suo ferro del mestiere, che il regista sogna un futuro (o un passato?) migliore. Indipendentemente dalle fratture generazionali, a noi resta il piacere di sognare insieme a lui.