Cinema Recensioni

Beau ha paura, l’autoterapia infinita di Ari Aster

Pubblicato il 21 aprile 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Prima di Hereditary e Midsommar, c’è stato Beau. Ari Aster lo ha diretto nel 2011, anno in cui il suo nome cominciava a girare tra i festival grazie a un cortometraggio precedente, The Strange Thing About the Johnsons. Come quest’ultimo, anche Beau vede protagonista lo scomparso Billy Mayo, che interpreta un uomo perseguitato dai suoi vicini di casa: gli inquilini del condominio lo insultano senza motivo apparente, gli attribuiscono colpe non sue, e qualcuno gli ruba persino le chiavi e la valigia quando sta partendo per far visita a sua madre. La trama imbocca direzioni surreali e paranoiche, fedeli all’atmosfera della storia, dove risulta impossibile capire se gli eventi siano frutto della mente di Beau (come nel più classico dei mind game movie) o se qualcosa di strano stia effettivamente accadendo.

Facciamo un salto di dodici anni, e ritroviamo l’eponimo protagonista al centro del terzo lungometraggio di Ari Aster, che espande a dismisura le premesse del corto. Intendiamoci, Beau ha paura resta un lungometraggio originale, ma è innegabile che le sue radici affondino proprio laggiù. Beau Wasserman (Joaquin Phoenix) è un quarantenne dall’aria trasandata che sta per partire per andare a trovare sua madre, e frequenta le sedute con un terapista (Stephen McKinley Henderson) a cui confida i suoi numerosi timori. Vive in una città violenta e senza legge, governata dal caos, con crimini brutali e strambi individui che affollano le strade. La situazione non è molto diversa nel palazzo dove abita: il degrado regna ovunque, e i vicini lo accusano di tenere la musica ad alto volume durante la notte, nonostante lui non abbia disturbato nessuno. Quando è pronto per partire – proprio come nel cortometraggio – qualcuno gli ruba sia la valigia sia le chiavi di casa, e Beau non trova un minimo di comprensione nemmeno in sua madre.

Rivelare qualcos’altro comprometterebbe l’esperienza del film, ma sappiate che il nostro eroe verrà risucchiato in una folle avventura per cercare la strada di casa, scandita da incontri pericolosi e talvolta indecifrabili. Beau ha paura, in effetti, segue il passo febbricitante dei grandi trip allucinogeni, ed è quasi sorprendente che Aster abbia realizzato due horror “puri” (seppur sui generis) prima di arrivare a un’opera di questo tipo. I suoi cortometraggi – non solo Beau, ma anche Munchausen – celavano già in nuce le ossessioni del regista, ed è chiaro che la sua poetica aveva bisogno di sfogarle in un film eccessivo, parossistico, che deborda sotto ogni aspetto e seduce proprio per quello.

Certo, tre ore sono troppe: A24 avrebbe dovuto guidarlo meglio in fase di montaggio, e convincere il regista ad asciugare qualche passaggio troppo pedante. La durata fluviale contribuisce però a stordire il fruitore, alimentando uno stato ansiogeno di cui è difficile cogliere la ragione precisa; eppure sta lì, al centro dello stomaco, vibrando allo stesso ritmo del povero Beau quando affronta le situazioni più paradossali. Senza essere propriamente onirico, Beau ha paura interiorizza le dinamiche del sogno come nessun altro film recente sia stato in grado di fare: le vicende del protagonista sembrano immerse nella stessa inerzia ovattata che caratterizza i sogni, come la sensazione di muoversi senza mai spostarsi, di parlare senza riuscire a esprimersi, di agire senza ottenere risultati. Beau e il mondo esistono su frequenze diverse, e ogni parola o azione viene percepita come il suo opposto. Tutti lo accusano di qualcosa, ma lui non fa proprio niente: obbedisce alle richieste, si scusa senza motivo, ma viene aggredito anche quando cerca di assecondare il prossimo.

Su di lui pesa il senso di colpa materno, vero cardine del film. In tal senso, il cinema di Ari Aster si conferma una seduta di autoterapia continua, dove il regista rielabora i traumi personali in storie grottesche e spaventose: l’assurdo è infatti la risposta più naturale alle turbe della psiche, l’unica in grado di delinearne gli aspetti più sfuggenti, stranianti e incomprensibili. Il discorso vale tanto per Midsommar (dove Aster – guarda caso – sfogava lo shock di una delusione romantica) quanto per Hereditary e i corti sopracitati, che sovvertivano la concezione tradizionale della famiglia. Beau ha paura non fa differenza: per il cineasta newyorkese, è proprio in seno alla famiglia che si nasconde la vera minaccia, il vero Male. Qui è ancora più evidente, poiché la madre di Beau porta all’estremo tutte le strategie manipolatorie che caratterizzano i rapporti con i figli maschi, a partire dal senso di colpa e dalla paura come forme di controllo. La disanima di Aster è spietata, precisa al millimetro. Se Beau ha tutti questi timori, è proprio perché sua madre li ha coltivati dentro di lui, al fine di limitare la sua libertà e tenerlo legato a sé; il suo amore distorto è in realtà una gabbia, un desiderio di possesso. Non sorprende che, per restare l’unica donna della sua vita, gli infonda il terrore mortale dell’amplesso.

Che sia un delirio lisergico, un lungo incubo o una trasfigurazione immaginativa di fatti “reali”, Beau ha paura spiazza e riempie gli occhi con trovate brillanti, costringendoci ad assumere il punto di vista (inaffidabile?) del protagonista. Joaquin Phoenix è bravo a renderlo credibile nonostante i suoi eccessi, ma lo stesso Aster ha il merito di circondarsi di ottimi caratteristi come Patti LuPone e Nathan Lane, capaci di esprimersi sulla stessa lunghezza d’onda dell’autore nelle scene più febbrili o stralunate. È un film di cui bisogna accettare i parossismi per coglierne tutti i rimandi interni, come l’insistenza sulla “sicurezza” nei prodotti della MW Corporation (l’azienda fondata dalla madre), o le perenni accuse incomprensibili che piovono su Beau da parte degli altri personaggi, specchio del rapporto con la genitrice.

Non c’è mai tregua, e arrivare alla fine è un sollievo: dopo un tale sovraccarico di stimoli, finalmente possiamo rifiatare ed elaborare ciò che abbiamo visto. È raro che il cinema mainstream spinga il pubblico fino ai suoi limiti, ma Aster dimostra di saperlo fare. Non è cosa da poco.