Martin Bourboulon guida un ricco cast in una nuova e libera interpretazione cinematografica del celebre romanzo di Alexandre Dumas. Il 6 aprile arriva nelle sale italiane I tre moschettieri: D’Artagnan.
“I Tre Moschettieri” di Alexander Dumas rimane a quasi 180 anni dalla sua prima uscita editoriale, un simbolo unico della narrativa contemporanea. Questo in virtù di un mix di elementi in esso presenti, che poi sono stati la base per sviluppare più generi narrativi, e non è un caso che abbia vissuto sotto molteplici forme sul grande e piccolo schermo. Ora per la regia di Martin Bourboulon, ecco un’altra trasposizione capace di essere fedele allo spirito della saga, ma anche di cercare la via dell’innovazione, il che poi non può che far nascere tutta una serie di confronti molto interessanti con il passato cinematografico della stessa.
Il guascone d’Artagnan (François Civil) lo troviamo ovviamente diretto a Parigi, intenzionato come noto ad unirsi al corpo dei moschettieri del Re, seguendo le orme paterne. La sceneggiatura di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière imprime immediatamente un tocco personale, con uno scontro notturno fuori della capitale, al termine del quale il nostro eroe è a tutti gli effetti nella guerra sotterranea che si combatte tra la regina Anna e sua eminenza il cardinale Richelieu.
Per il ragazzo sarà solo l’inizio di una straordinaria avventura, che lo porterà naturalmente a legarsi a tre moschettieri tanto atipici quanto leggendari: Athos, Portos ed Aramis, persi dentro la Francia in preda alla guerra civile-religiosa di quella metà di ‘600. La saga di Dumas è già stata sviluppata tantissime volte al cinema, ma la differenza tradizionalmente l’ha sempre fatta il punto di vista, la minore o maggiore fedeltà all’originale cartaceo, così come soprattutto la scelta di un’atmosfera particolare da seguire.
Bourboulon arriva dopo la trasposizione pseudo steampunk di Paul W. S. Anderson del 2011 e quella del 2001 di Hymas. Qui da un lato troviamo una rievocazione storica minuziosa ma non troppo rigida, che ricorda la serie televisiva della BBC del 2014, con un 1600 brutto, sporco e cattivo.
Ad ogni modo il film si prende delle libertà su cui vale la pena soffermarsi, per quello che riguarda la semantica ma soprattutto i personaggi e la simbologia che essi hanno sempre indossato.
Ad interpretare i tre moschettieri troviamo Vincent Cassel, Romain Duris e Pio Marmaï. La loro caratterizzazione è senza ombra di dubbio la cosa più interessante, perché se da un lato ci troviamo molto di ciò che il cinema ci ha detto in precedenza, per altri versi invece sono totalmente diversi.
Vincent Cassel in particolare, fa del suo Athos un personaggio con cui omaggiare ciò che Van Heflin fece nella celeberrima versione del 1948 di Sidney, ancora oggi ritenuta generalmente la migliore.
Molto distante dal carisma ferale che usò Oliver Reed nella saga firmata da Lester negli anni ’70, ci mostra un uomo ferito, malinconico, solitario ma soprattutto un’anima divisa in due come lo era la Francia di quel periodo. Duris ed il suo Aramis invece sono una novità non da poco. A suo tempo Richard Chamberlain, Robert Coote e anche Jaques Toja l’hanno mostrato come un damerino snob, qui invece ci arriva un individuo molto più torbido, licenzioso, a tratti estremamente violento seppur sempre capace di una profonda autoironia. Portos, questo Portos di Marmaï, fa sicuramente il verso a quello che Gerard Depardieu interpretò ne La Maschera di Ferro di Randall Wallace nel 1998: è un’anima istintiva e godereccia, un compagnone, ma appare anche quello più violento sul campo di battaglia perché imprevedibile e sanguinario. Infine, c’è lui, D’Artagnan, forse un po’ più grande rispetto al passato, ma a cui Civil sa dare ciò che furono Michael York e Gene Kelly: è prestante, immaturo, coraggiosamente incosciente e ingenuamente romantico. Tuttavia, è anche dotato dell’istinto del segugio e di una capacità di improvvisare notevolissima.
La fotografia ed i costumi esaltano i colori più cupi, terrei, ma rendono comunque l’insieme elegante, in un certo qual modo anche decadente. Sono tutti elementi che proprio la Francia aveva già amato nei film di Borderie dei primi anni ’60, con la loro ricercatezza estetica e volontà di trasportarci in quell’era lontana. Qui permane lo sfarzo, ma non vi è l’immobilità della regia, in virtù di una dimensione action che strizza l’occhio alla saga di John Wick. Interessante è il Luigi XIII di Luis Garrel, che si connette a ciò che Jean-Pierre Cassel (padre di Vincent) fece sotto il già citato Lester negli anni ’70, togliendo ogni possibile sacralità alla figura. Goffo, pomposo e abbastanza infantile nei modi, è però anche riflessivo, intelligente, acuto quanto basta da sapere di non doversi fidare di nessuno. Poi ci sono le nemesi, più che il cardinale Richelieu, qui tenuto abbastanza in disparte rispetto a ciò che ebbero in dote Charlton Heston o Basil Ratbone, naturalmente lei: Milady. Eva Green per fortuna non è un’eroina da anime come era Milla Jovovich, appare molto più connessa alla Maimie McCoy vista nella serie tv targata BBC del 2014. Si stacca quindi dalle glaciali Lana Turner e Faye Dunaway, facendo intravedere una funzione di riscatto, o meglio ancora di vendetta del sesso femminile verso un mondo dominato dalla forza degli uomini. Per quanto rimanga assolutamente inquietante nella sua dimensione di manipolatrice e agente del caos, aggiunge una negazione ad una visione manichea della Storia. Un elemento che di certo avrà nel secondo film un ulteriore sviluppo.
Nel frattempo attendiamo I tre moschettieri: D’Artagnan, in arrivo nelle sale italiane il 6 aprile.